Attacchi USA in Iran: impatto sui mercati, petrolio e banche centrali

Il bombardamento di tre impianti nucleari in Iran da parte degli Stati Uniti segna un nuovo punto di svolta nel conflitto mediorientale. Mentre i mercati restano cauti, si intensificano le riflessioni sugli effetti economici a livello globale. Dal rischio di escalation militare al potenziale shock energetico, passando per le reazioni di dollaro, obbligazioni e credito: ecco le conseguenze più concrete di un evento destinato a influenzare la traiettoria dei mercati finanziari.
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Cresce l’incertezza geopolitica, ma i mercati mantengono la calma
Il bombardamento statunitense di tre impianti nucleari iraniani ha immediatamente polarizzato l’attenzione globale, ma non ha scatenato il panico nei mercati. Il presidente Donald Trump ha definito gli attacchi un “grande successo”, mentre il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha parlato di impianti “distrutti”. L’Iran, dal canto suo, ha minimizzato l’entità dei danni. "La verità, come spesso accade in questi casi, resta sfumata" afferma il team Macroeconomisti di ING.
L’azione americana è stata finora interpretata più come una missione punitiva circoscritta che come un’entrata in guerra su larga scala. Non si registra per ora una risposta militare significativa da parte di Teheran, alimentando l’ipotesi che l’Iran stia valutando attentamente le proprie mosse. Nel frattempo, i mercati finanziari restano in attesa. "Le opzioni sul tavolo spaziano da un’escalation totale a un blocco strategico dello Stretto di Hormuz, fino all’assenza di reazione" spiega ING.
In questo contesto, secondo ING, le conseguenze più immediate sembrano concentrarsi su due fronti: l’aumento della pressione sul petrolio e una nuova ondata di incertezza economica globale. Il clima resta teso, ma non ancora esplosivo.
Petrolio sotto pressione e lo spettro di Hormuz
L’interruzione del traffico marittimo attraverso lo Stretto di Hormuz rappresenta lo scenario peggiore e, alla luce degli ultimi sviluppi, si fa sempre più concreto. Come spiega ING, "parliamo di un passaggio strategico che movimenta un quarto del commercio mondiale di petrolio via mare e circa il 20% del GNL globale. Un blocco anche solo parziale comporterebbe uno squilibrio immediato nel mercato energetico".
La capacità produttiva inutilizzata dell’OPEC, localizzata perlopiù nel Golfo Persico, non potrebbe aggirare l’ostacolo logistico. Il mercato si troverebbe così in una situazione di profondo deficit. Nel breve periodo, gli analisti stimano un possibile balzo del Brent fino a 120 dollari al barile, con proiezioni superiori ai 150 dollari in caso di interruzioni prolungate.
Tuttavia, secondo ING, l’Iran potrebbe esitare prima di optare per una mossa così drastica. La maggior parte del petrolio che attraversa Hormuz è destinato all’Asia e lo stesso petrolio iraniano dipende da quel corridoio. Una chiusura completa significherebbe danneggiare anche le proprie esportazioni e irritare partner cruciali come la Cina.
Le banche centrali tra inflazione e attese prudenti
Il ritorno della tensione in Medio Oriente potrebbe minare uno dei pochi trend positivi che si erano affermati recentemente: il calo delle pressioni inflazionistiche. Un’ulteriore impennata dei prezzi del petrolio rischia di frenare il processo disinflazionistico in atto sia negli Stati Uniti che nella zona euro. Negli USA, la Federal Reserve resta in allerta: il Beige Book ha già segnalato una possibile accelerazione dell’inflazione estiva. Le scorte aziendali finora hanno tamponato, ma il margine si sta esaurendo.
Secondo ING, la Fed dovrebbe quindi mantenere la sua posizione attendista, con un taglio dei tassi ora atteso solo nel quarto trimestre, forse con un intervento da 50 punti base a dicembre. Anche l’Eurozona si prepara a scenari più tesi. La BCE, secondo alcune simulazioni, potrebbe dover alzare le proprie previsioni inflazionistiche dello 0,3% per quest’anno e dello 0,6% per il prossimo, solo applicando i prezzi attuali del petrolio. Di conseguenza, un taglio a luglio appare escluso, mentre anche settembre potrebbe rivelarsi più complicato del previsto.
Non è solo una questione tecnica. Dopo l’esperienza del 2022 con la crisi energetica scatenata dalla guerra in Ucraina, le banche centrali europee sono restie a sottovalutare nuovi shock energetici.
Il dollaro torna a salire, ma l’effetto rifugio resta incerto
Nel breve termine, il dollaro ha beneficiato del rinnovato clima di tensione, mettendo a segno un rimbalzo sulla scia dei raid americani e della prospettiva di un petrolio più caro. L’euro si è indebolito, ma il vero test arriverà nei prossimi giorni. Se la crisi dovesse protrarsi, con uno scenario di blocco prolungato dello Stretto di Hormuz, secondo ING il biglietto verde potrebbe ritrovare parte del suo ruolo di bene rifugio. In caso contrario, la correzione potrebbe essere altrettanto veloce.
Nel frattempo, non si è assistito a una fuga verso la sicurezza nei mercati obbligazionari. Bund tedeschi e Treasury americani non hanno registrato afflussi significativi, segno che gli investitori, almeno per ora, non considerano lo scenario come sistemicamente destabilizzante. Come spiega ING, i tassi potrebbero però reagire con forza a un’escalation più seria, con un calo repentino dei rendimenti e un’irripidimento della curva nel lungo termine.
Anche i mercati del credito restano in modalità “Goldilocks”. Gli spread restano stabili, i collocamenti primari continuano a incontrare forte domanda, e la liquidità resta abbondante. Tuttavia, qualsiasi accelerazione delle tensioni (soprattutto sul fronte energetico) potrebbe rapidamente spostare l’orientamento degli investitori verso un atteggiamento più difensivo.
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