FED, Powell sarà più falco o colomba?


Powell potrebbe essere meno colomba di quanto sperato. Il rischio è che la FED si faccia prendere la mano e aumenti troppo i tassi di interesse, nell’ipotesi che in questo modo l’inflazione scenda più velocemente. Ovviamente nulla di più sbagliato, visto che mediamente occorrono 6/9 mesi prima che gli effetti della politica monetaria siano visibili.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM


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Settimana che si preannuncia importante, sia per l’uscita dei dati sia perché è quella che precede i meeting della FED e della BCE. Si comincia lunedì alle 10:00 con il PMI composito dell’Europa di novembre (stima 47,1% punti contro 47,8% di ottobre), mentre alle 11:00 è il turno delle vendite al dettaglio sempre dell’Europa MoM di ottobre (stima -1,7% contro 0,4% di settembre). Si prosegue nel pomeriggio alle 15:45 con il PMI servizi USA di novembre (stima 46,1 invariato rispetto ad ottobre). Alle 16:00 esce l’ISM non manifatturiero di novembre (stima 53,1 punti contro 54,4 di ottobre). Mercoledì alle 8:00 tocca alla produzione industriale delle Germania MoM di ottobre (stima -0,5% contro 0,6% di settembre) e alle 11:00 il PIL dell’Europa del 3Q22 il cui rallentamento della crescita allo 0,2% dovrebbe essere confermato (+0,8% nel 2Q22). Venerdì alle 14:30 usciranno i prezzi alla produzione USA MoM di novembre (stima 0,2% invariato rispetto ad ottobre) e alle 16:00 la fiducia dei consumatori del Michigan di dicembre (stima 57 punti contro 56,8 di novembre).

Lo scorso venerdì i prezzi alla produzione dell’Europa MoM di novembre sono diminuiti più delle attese (-2,9% contro -2% stimato e +1,6% di ottobre), segnale che la riduzione dei prezzi dell’energia iniziata a settembre comincia a diventare visibile. Come abbiamo più volte argomentato, ci vorrà però un po’ di tempo prima che si vedano gli effetti anche sui prezzi al consumo.

Variazione occupati USA di novembre decisamente più alta della stima (263k contro 200 stimati e 284k di ottobre) e un tasso di disoccupazione che rimane invariato al 3,7%.

Entrambi i dati sembrano allontanare l’ipotesi che Powell possa essere meno falco il prossimo 14 dicembre e aumentare nuovamente i tassi di 75 bp invece che di 50 bp come aveva lasciato sperare la scorsa settimana.

I mercati finanziari hanno reagito male alla notizia. Ma non è ancora detto che Powell scelga la versione falco.

I dati USA che via via stanno uscendo non indicando univocamente una recessione, storicamente mai avvenuta con la disoccupazione al 3,7%. Non dimentichiamo che comunque c’è sempre una prima volta. In realtà, quale migliore situazione per la FED di quella in cui l’inflazione scende, i consumi aumentano ma non tanto da far crescere i prezzi, ma a sufficienza per sostenere il PIL e il mercato del lavoro rimane vicino alla piena occupazione.

Il rischio è che la FED si faccia prendere la mano e aumenti tassi di interesse più del necessario, nell’ipotesi che in questo modo l’inflazione scenda più velocemente. Ovviamente nulla di più sbagliato, visto che mediamente occorrono 6/9 mesi prima che gli effetti della politica monetaria siano visibili. L’effetto immediato sarebbe invece quello di portare il sistema economico dentro una recessione lunga e profonda. Ma il rischio risulta attenuato proprio dai dati del mercato del lavoro che, indirettamente, sostiene i consumi. Del resto, fino allo scorso ottobre ogni 1 lavoratore ne mancavo 1,8 circa. Logico quindi attendersi che l’occupazione potesse rimanere elevata prima di mostrare segni di rallentamento.

Rischio attenuato non significa che il sistema economico non possa scivolare nuovamente (dopo i primi due trimestri dell’anno) in recessione. Secondo un sondaggio del Wall Street Journal gli economisti che si aspettano una recessione nel 2023 sono cresciuti dal 49% di luglio al 63% di ottobre, oltre ad aspettarsi un PIL in contrazione nei primi due trimestri del 2023 (-0,2% nel primo e- 0,1% nel secondo), in grado di generare un taglio dei posti di lavoro di circa 34.000 unità ogni mese nel 1Q23 e 38.000 nel 2Q23. Il 60% circa degli economisti ritiene inoltre che la FED abbia alzato troppo i tassi di interesse per consentire un soft landing.

Continuiamo a rimanere convinti che Powell possa aumentare i tassi di 50 bp nel prossimo meeting del 14 dicembre e poi si fermi per valutare i dati, essendo comunque conscio che i primi due trimestri del prossimo anno saranno difficili sotto il profilo economico.

Se lo scenario è quello delineato, quali sono gli investimenti vantaggiosi nel prossimo anno? Cominciamo intanto con il dire che è improbabile che i portafogli speculativi che hanno sovraperformato negli ultimi cinque anni riescano a fare altrettanto bene nel prossimo ciclo.

Ci sono infatti troppe forze al lavoro che interagiscono simultaneamente. Dal persistere di un’inflazione elevata (anche se in via di riduzione) alla guerra in Ucraina, nonché alla volatilità e ai livelli raggiunti dai prezzi dell’energia, gli investitori si trovano in un momento di massima incertezza dai tempi della crisi finanziaria globale.

Non sempre è possibile prevedere con precisione i singoli eventi, ma occorre però cogliere i segnali di allarme che possono consentire di prepararsi. L’indice S&P 500 è sceso di quasi il 20% da inizio anno, ma le aspettative di consensus prevedono una crescita dell’EPS del 7% nei prossimi 12 mesi. Delle due, l’una: o il mercato è clamorosamente sottovalutato o le stime sono sbagliate e dovranno essere riviste al ribasso. Se teniamo conto del calo mediano degli utili durante le recessioni degli ultimi 30 anni, che si è collocato in un range tra l’11 e il 16%, è lecito supporre che il consensus sulla crescita degli utili sembri piuttosto ottimistico.

Nelle fasi recessive degli ultimi 50 anni i mercati sono scesi mediamente del 30% dal picco al minimo e ci sono voluti circa 5 anni per tornare ai massimi precedenti. In caso di ulteriore correzione del mercato, occorre dunque proteggersi dai ribassi.

E come ci si protegge dai ribassi? Ci sono almeno tre considerazioni da fare. La prima è che non tutte le società subiscono lo stesso impatto da una fase recessiva. Man mano che i consumatori esauriscono il loro surplus di risparmi per finanziare i consumi e l’economia si indebolisce, si assisterà ad una netta differenziazione tra le imprese in grado di mantenere i margini e quelle che invece subiscono la recessione. Le aziende su cui fare affidamento sono quelle che operano in mercati meno ciclici e con potere di determinazione dei prezzi. La seconda considerazione è che non bisogna confondere una bella storia con una società di qualità. Sono due cose diverse. Alcuni dei titoli più popolari degli ultimi anni hanno subìto un calo significativo nel 2022. Una società con un modello di business interessante ma senza un chiaro track record di crescita reddituale è solo un’altra bella storia, ma non una società di qualità.

È difficile, ma non impossibile, trovare grandi aziende di qualità in grado di operare in mercati difficili.

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