Gli effetti economici della guerra sono ancora poco chiari


Le conseguenze della guerra tra Israele e Hamas sull’economia globale potrebbero richiedere del tempo per diventare chiare, ma sicuramente diventerebbero più gravi se il conflitto si estendesse al resto del Medio Oriente.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM


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Inflazione della Germania YoY di settembre in uscita oggi alle 8:00 (stima 4.5% contro 6,1% di agosto) e prezzi USA alla produzione MoM di settembre (stima +0,4% contro +0,7 di agosto).

Produzione industriale dell’Italia MoM di agosto più elevata delle aspettative (+0,2% contro zero atteso) e maggiore del dato di luglio (-0,9%).

Si è aperto un nuovo fronte di guerra dopo che i militanti palestinesi hanno lanciato più di 5.000 razzi dalla striscia di Gaza verso Israele. Le conseguenze della guerra tra Israele e Hamas sull’economia globale potrebbero richiedere del tempo per diventare chiare, ma sicuramente diventerebbero più gravi se il conflitto si estendesse al resto del Medio Oriente, in particolare all’Iran, che è allo stesso tempo un importante produttore di petrolio e sostenitore di Hamas.

Un primo importante canale di impatto sull’economia globale sono i prezzi del petrolio, che sono già saliti vicino al livello di 90 dollari. L'ulteriore escalation del conflitto verso altre nazioni del Medio Oriente, che sono importanti produttori di petrolio, rappresenta una minaccia più grande e necessita di un controllo molto attento dato che l'economia globale si trova attualmente ad affrontare uno scenario di tassi di interesse più alti per un periodo più lungo (almeno secondo le intenzioni della FED e della BCE).

Per il momento riteniamo improbabile che la crisi costituisca una grave minaccia immediata per l’approvvigionamento petrolifero, a meno che non si diffonda ulteriormente ad altri paesi della regione: questo potrebbe trasformarsi in una guerra per procura più devastante, coinvolgendo Stati Uniti e Iran.

Sebbene vi siano notizie di un coinvolgimento dell’Iran negli attacchi contro Israele (nonostante le smentite), qualsiasi possibile ritorsione contro Teheran potrebbe mettere in pericolo il passaggio delle navi attraverso lo Stretto di Hormuz, un condotto vitale che l’Iran ha precedentemente minacciato di chiudere. Se la guerra dovesse diventare lunga (vale a dire per più di due/tre settimane), le dinamiche del petrolio sono destinate a cambiare drasticamente. In peggio.

Con l’eventuale e sempre possibile impennata dei prezzi del petrolio, la minaccia di un’inflazione elevata ritornerebbe prepotentemente alla ribalta. Un’inflazione da costi, difficile da estirpare, come abbiamo già avuto modo di sperimentare. Gli USA, l’India, la Cina e le altre grandi economie sono grandi importatori di petrolio e potrebbero vedere un’elevata inflazione importata se i prezzi del petrolio rimanessero elevati. Va da se che quando i prezzi del petrolio aumentano, anche i costi di produzione per numerose industrie e i costi energetici per le imprese e le famiglie si incrementano, alimentando l’inflazione.

L’incertezza è sicuramente elevata. Quello che appare chiaro è che la dichiarazione di guerra di Israele contro Hamas potrebbe allontanare gli investitori dagli asset rischiosi, già in flessione a causa dell’aumento dei rendimenti e dei tassi di interesse. Per capire che cosa potrebbe accadere sui mercati, possiamo prendere ad esempio l’invasione dell’Ucraina. Dall’invasione in avanti, l’indice S&P 500 ha infatti subìto una lunga serie di perdite.

Ma dall’inizio delle ostilità contro Israele, gli indici principali sono saliti nonostante lo sconvolgimento geopolitico. Naturalmente, qualcuno potrebbe attribuire tale aumento ai soliti soggetti che traggono vantaggio dai conflitti armati (produttori e distributori di petrolio e gas). Anche i titoli della difesa sono cresciuti, soprattutto dopo che Bank of America ha affermato che il governo degli Stati Uniti potrebbe aumentare gli investimenti nella difesa. Riteniamo però che questi movimenti in settori specifici siano per lo più una reazione istintiva degli investitori che in realtà non sono per nulla sicuri di come andrà a finire in conflitto tra Israele e Hamas.

Finché gli sforzi diplomatici continuano a concentrarsi sul contenimento del conflitto, il mercato guarda alla situazione e dice: l’abbiamo già visto. Per il momento quindi l’impatto a lungo termine degli eventi geopolitici tende ad essere in qualche modo contenuto. Ma è chiaro che questo dipenderà dall’evoluzione del conflitto.

Può sembrare sconcertante che i mercati si stiano riprendendo proprio mentre infuria un nuovo conflitto mortale. Ma i mercati, come sappiamo, sono molto cinici. Di fatto è la conferma di quello che abbiamo già visto quest’anno: l’aggressione russa in Ucraina ha avuto solo un effetto attenuato, se non alcuno, sull’economia e sui mercati USA.

Potrebbe addirittura sembrare paradossale, ma storicamente la volatilità delle azioni USA si è rivelata inferiore del 33% rispetto alla media dei periodi precedenti, quando gli Stati Uniti sono in guerra (fonte: Stock market volatility and war puzzle, NBER Working Paper 29837). E’ necessaria tuttavia una precisazione: nessuno dei conflitti studiati dai ricercatori è stato combattuto negli Stati Uniti, il che ha ridotto la volatilità perché il capitale azionario statunitense non è stato soggetto a danni massicci e continui.

Le motivazioni possono essere ricercate nel fatto che la guerra fa aumentare, a volte in modo drammatico, la quota della spesa pubblica destinata alla difesa. Ciò rende la redditività futura di un’ampia fascia di aziende più prevedibile e, quindi, meno volatile secondo i ricercatori. Costruendo un set di dati sulla spesa per la difesa degli Stati Uniti dal 1890 al 2017, questi hanno scoperto che una spesa più elevata predice una minore volatilità delle azioni in termini aggregati e in particolare per le aziende che producono beni militari. La ricerca ha inoltre messo in luce che le previsioni degli analisti sugli utili di tali aziende sono diventate più uniformi all’inizio dei recenti conflitti, compreso quello in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003. Sarà così anche questa volta? Non ci è dato di saperlo. Ma, come dicevamo, i mercati sono molti cinici.

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