Guerra dei dazi e terre rare, la sfida strategica tra Cina e Stati Uniti

Le terre rare, fondamentali per tecnologie d’avanguardia e transizione energetica, sono al centro di una nuova battaglia geopolitica tra Cina e Stati Uniti. L’egemonia cinese su estrazione e raffinazione minaccia l’industria americana, mentre Trump rilancia la produzione nazionale. Ma la corsa all’autonomia è lunga e complessa.
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Terre rare: la spina dorsale silenziosa dell’economia moderna
Sebbene pochi le conoscano, le terre rare sono materiali essenziali per il mondo contemporaneo. Con nomi poco familiari come gadolinium o dysprosium, questi elementi si trovano in tecnologie comuni e avanzate: dagli smartphone agli aerei militari, dai magneti delle turbine eoliche agli strumenti per la diagnostica medica. Il crescente sviluppo di tecnologie green ha aumentato esponenzialmente la loro domanda.
Il loro valore strategico si è rivelato ancor più evidente nella nuova fase della guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti. Pechino ha sfruttato la sua supremazia lungo la filiera delle terre rare come arma geopolitica, imponendo restrizioni all’export in risposta ai dazi americani. Questa mossa ha rischiato di compromettere la tregua doganale di 90 giorni siglata a maggio tra i due paesi, minacciando settori chiave dell’economia USA come quello militare, dove per esempio un solo jet F-35 richiede oltre 400 kg di terre rare, secondo il Dipartimento della Difesa.
Cos’è una terra rara e perché è così cruciale
Le terre rare comprendono 17 elementi metallici simili dal punto di vista chimico ma con proprietà ottiche, magnetiche ed elettriche uniche. Queste caratteristiche le rendono indispensabili in numerosi settori. Terbio e ittrio contribuiscono ai colori vividi degli schermi, mentre il cerio è usato nei catalizzatori delle auto. Altri, come neodimio e praseodimio, alimentano i magneti permanenti nei motori elettrici e nelle pale eoliche.
Nonostante il nome, le terre rare non sono particolarmente scarse nella crosta terrestre: il cerio, ad esempio, è più abbondante dello stagno. La difficoltà risiede nell’individuare depositi economicamente sfruttabili. Inoltre, l’estrazione è energivora, idrovora e inquinante, spesso associata a elementi radioattivi come uranio e torio, rendendo le operazioni ambientalmente delicate.
La supremazia cinese: produzione, raffinazione e potere politico
La Cina è il dominatore assoluto del settore. Nel 2024 ha prodotto 270.000 tonnellate di terre rare, pari al 70% dell’estrazione mondiale, contro le 45.000 degli Stati Uniti. Ma la forza cinese non si ferma all’estrazione: controlla anche la raffinazione, passaggio obbligato per rendere i materiali utilizzabili. Di conseguenza, perfino i paesi produttori sono costretti a inviare i propri minerali in Cina per la lavorazione.
Pechino possiede quasi la metà delle riserve globali (44 milioni di tonnellate), più del doppio rispetto al Brasile, secondo in classifica. Gli Stati Uniti si collocano solo al settimo posto, con appena 1,9 milioni di tonnellate e capacità di raffinazione quasi nulla.
Non è un caso che già nel 1992 Deng Xiaoping affermasse: "Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina ha le terre rare." Il concetto è stato ribadito nel 2010, quando Pechino bloccò le esportazioni verso il Giappone per due mesi a seguito di una disputa territoriale. Oggi il potere è esercitato in chiave americana, con l’inclusione di sette terre rare e magneti permanenti nella lista dei materiali soggetti a controlli all’export.
La risposta americana: ordini esecutivi e obiettivi geopolitici
Nel tentativo di ridurre la dipendenza del 70% dalle importazioni cinesi, il presidente Trump ha firmato a marzo un ordine esecutivo che invoca poteri d’emergenza per potenziare la produzione interna di minerali critici. Il piano prevede finanziamenti, prestiti e accelerazione delle autorizzazioni per nuovi progetti.
Ad aprile ha inoltre avviato un’indagine sulla vulnerabilità della catena di approvvigionamento, affidata al Segretario al Commercio Howard Lutnick, i cui risultati sono attesi entro 270 giorni. Tuttavia, la capacità produttiva americana resta limitata: l’unica miniera attiva è quella di Mountain Pass, in California, riaperta nel 2018. Attivare nuovi siti estrattivi richiederà anni e investimenti miliardari.
Nel frattempo, le aziende statunitensi rischiano di pagare prezzi maggiori per i materiali se la Cina continuerà a limitarne l’esportazione. Tesla, per esempio, ha dichiarato che i controlli hanno interrotto la produzione del robot umanoide Optimus, mentre Ford ha fermato temporaneamente uno stabilimento a Chicago per carenza di componenti.
Trump guarda anche oltre i confini americani. Ha ventilato l’interesse per le risorse minerarie della Groenlandia, ottava al mondo per riserve, e ha firmato un accordo per sfruttare i minerali critici dell’Ucraina, anche se il paese non dispone ancora di giacimenti economicamente riconosciuti.
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