AL CUORE DELL'ECONOMIA USA

01/09/2025 06:45
AL CUORE DELL'ECONOMIA USA

Sta circolando una narrazione di mercato fuorviante e pericolosa secondo cui gli Stati Uniti starebbero assumendo tutte le caratteristiche di un mercato emergente volatile e ad alto rischio.

Crediamo che siano tutte sciocchezze, nonostante l’amministrazione Trump abbia rotto i tradizionali schemi.

Siamo quindi convinti che gli investitori rimarranno neutrali sui mercati emergenti (quelli veri) e sovrappesati sulle azioni statunitensi.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM

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IL DATO MACRO DELLA SETTIMANA

Settimana che vede diversi dati importanti in uscita, a cominciare dal tasso di disoccupazione USA di agosto, previsto in crescita al 4.3% (da +4.2% di luglio), cui la Fed presterà la massima attenzione per definire la prossima mossa di politica monetaria.

NARRAZIONE FUORVIANTE

Da qualche tempo sta circolando una narrazione di mercato fuorviante e pericolosa secondo cui gli Stati Uniti starebbero assumendo tutte le caratteristiche di un mercato emergente volatile e ad alto rischio.

Questa tesi è supportata dalle crescenti pressioni politiche interne affinché la banca centrale tagli i tassi d’interesse, da un maggiore interventismo governativo nel settore privato, dall’allargamento del deficit di bilancio federale, dall’indebolimento della valuta e dall’aumento del protezionismo commerciale e degli investimenti.

Tutti gli elementi sopra citati sono tratti tipici dei mercati emergenti e, quindi, più l’amministrazione Trump adotta un approccio anticonvenzionale nel corso del suo secondo mandato, più presumibilmente crescono i parallelismi tra gli Stati Uniti e i mercati emergenti. E, per associazione, maggiori sarebbero i rischi di detenere asset statunitensi. La nostra opinione? Sono tutte sciocchezze. Sì, l’amministrazione ha rotto gli schemi degli ultimi 80 anni in materia di geopolitica e commercio globale e sta mettendo alla prova i confini istituzionali interni. Ma da questo a tracciare parallelismi tra gli Stati Uniti e Paesi come la Turchia e l’Argentina (sì, l’Argentina, come ha fatto di recente un importante media) è, a nostro avviso, estremamente azzardato.

Nel migliore dei casi, i parallelismi generali tra gli Stati Uniti e un tipico mercato emergente sono deboli e scarsi. Per esempio, le economie di molti mercati emergenti sono strettamente basate su pochi settori (si pensi a energia, agricoltura o turismo) e/o dipendenti dal commercio estero. Di conseguenza, sono molto più esposte alle vicissitudini dell’economia globale, si pensi ad un rallentamento economico in Cina, all’imposizione di dazi statunitensi o alle onde d’urto geopolitiche generate dalla Russia.

Gli Stati Uniti, al contrario, sono una superpotenza economica relativamente isolata e multiforme, la cui economia altamente diversificata e innovativa non solo funge da ammortizzatore degli shock globali, ma anche da motore di crescita economica continua (l’economia statunitense è stata in espansione nell’87% del tempo dal 1945).

DEBITO IN VALUTA LOCALE

I livelli di debito del settore pubblico statunitense sono relativamente elevati? Sì, ma il debito dell’America è locale, ovvero in dollari USA, mentre gran parte del debito nei mercati emergenti è denominato in valuta estera (dollari USA).

Un forte indebitamento in valuta estera rende molti mercati emergenti vulnerabili all’instabilità del tasso di cambio, che in passato si è tradotta in un’inflazione più alta, crescita più debole, fuga di capitali e mercati azionari in caduta libera. Al contrario, gli Stati Uniti non solo possono rifinanziare agevolmente il proprio debito perché è in dollari, ma restano anche un magnete per i capitali esteri. La scarsità di capitali è invece un problema ricorrente per i mercati emergenti, ma è ben lontana dall’esserlo negli Stati Uniti.

FORZA DI ATTRAZIONE

Nessun paese attira capitali come gli Stati Uniti. Le detenzioni estere di titoli statunitensi (Titoli del Tesoro, agenzie, obbligazioni societarie e azioni USA) ammontavano a circa 31.000 miliardi di dollari nel primo trimestre del 2025, in aumento del 52% dall’inizio del decennio e rispetto a soli 3,4 mila miliardi all’inizio di questo secolo. Gli investitori esteri detengono una quota significativa dei Treasury negoziabili statunitensi (circa il 30%) ma la percentuale di Titoli del Tesoro detenuti da stranieri è diminuita negli ultimi 15 anni.

Gli investitori retail statunitensi sono emersi tra i maggiori detentori del debito USA, riducendo il rischio di una corsa ai riscatti sui Titoli del Tesoro qualora gli investitori stranieri si ritirassero in misura significativa dal mercato del debito statunitense. Di quest’ultimo aspetto non c’è però evidenza.

Secondo gli ultimi dati del Treasury International Capital System (TICS), gli afflussi netti di capitali esteri negli Stati Uniti sono saliti a un livello record di 1,74 mila miliardi di dollari nei 12 mesi fino a giugno. Infine, in tema di attrazione di investimenti diretti esteri (IDE), ovvero capitale investito nell’economia reale, nessun paese si avvicina neppure lontanamente agli Stati Uniti. Degli afflussi cumulati di IDE a livello globale dal 2000, gli Stati Uniti rappresentano il 17% del totale, ben davanti alla quota della Cina seconda in classifica con l’8%.

Tutto quanto sopra riflette il semplice fatto che i capitali fluiscono dove sono trattati meglio e la strada più battuta in tal senso porta agli Stati Uniti, non ai mercati emergenti. Pensate agli Stati Uniti come alla nazione start-up più dinamica al mondo, sostenuta dalla profondità e dalla sofisticazione dei mercati dei capitali americani e dal suo spirito imprenditoriale. Questa combinazione unica significa più innovazione, più crescita trainata dalla produttività, più talenti che arrivano negli Stati Uniti (soprattutto dai mercati emergenti) e più startup aziendali. Su quest’ultimo punto, il numero di nuove imprese create negli Stati Uniti (in base alle domande di costituzione d’impresa) è attualmente vicino ai massimi storici.

DEMOGRAFIA E GEOGRAFIA

Gli ultimi due punti nel confronto tra Stati Uniti e mercati emergenti ruotano attorno a demografia e geografia. Partendo dalla seconda: pochissimi Paesi al mondo sono avvantaggiati dalla geografia quanto gli Stati Uniti e, in un’epoca di tensioni geopolitiche, vincoli sulle risorse, rischi climatici e confini contesi, la geografia ha un valore premio. La dote statunitense comprende abbondanti risorse naturali, suoli fertili, acque dolci e foreste. Le Grandi Pianure sono la più vasta massa continua di terre arabili al mondo, il sistema fluviale del Mississippi è una rete di trasporti interna senza eguali sul pianeta. E i Grandi Laghi sono il più grande gruppo di laghi d’acqua dolce della Terra. In definitiva, l’economia americana, relativamente autosufficiente e di dimensioni continentali, è un dono geostrategico.

Al contrario, la geografia è una maledizione per molti mercati emergenti, dato il limitato terreno arabile, i confini contesi, le città sovraffollate, la deforestazione e i molteplici rischi legati al cambiamento climatico, si pensi a inondazioni più dannose, siccità e innalzamento del livello del mare in molti Paesi.

Anche il profilo demografico e le prospettive dei mercati emergenti restano impegnativi. Sebbene l’età mediana della maggior parte dei Paesi in via di sviluppo sia inferiore a quella degli Stati Uniti, le ampie corti giovanili in India e in molte parti dell’Africa rappresentano seri problemi economici e politici per nazioni prive di una crescita occupazionale stabile e di adeguate opportunità educative. Un esempio su tutti è la Cina, che sta lottando con un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 20% circa. Se il principale produttore ed esportatore mondiale di beni fatica a impiegare la sua vasta forza lavoro giovane, quali prospettive di crescita dell’occupazione ci sono in altre parti del mondo in via di sviluppo? Questo non significa che il profilo demografico degli Stati Uniti è perfetto. Tutt’altro. Ma in base alle attuali proiezioni su fertilità e longevità e alle politiche migratorie, la popolazione dovrebbe aumentare dagli attuali 340 milioni a circa 420 milioni entro il 2100. Al contrario, le popolazioni di Europa, Giappone, Corea del Sud e persino Cina dovrebbero diminuire nel corso di questo secolo. Che cosa significa tutto questo per gli investitori è semplice: non credete alla narrativa pigra secondo cui gli Stati Uniti starebbero assumendo tutti i tratti distintivi di un mercato emergente ad alto rischio destinato al fallimento. Le evidenze fondamentali smentiscono i titoli dei media. Siamo quindi convinti che gli investitori rimarranno neutrali sui mercati emergenti e sovrappesati sulle azioni statunitensi.

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