BCE, per i mercati ha armi limitate per ridurre l’inflazione


Per i mercati la BCE ha strumenti limitati per guidare il sistema economico verso l’equilibrio monetario di lungo periodo. Se ci pensiamo bene, la BCE non ha infatti nessuna influenza sui livelli dei fiumi in Francia, sui dibattiti sulla chiusura delle centrali elettriche o sui boicottaggi alle forniture della Russia. Da questo punto di vista la BCE è uno degli osservatori dell’inflazione, come lo siamo tutti. Sta facendo il minimo indispensabile per mantenere basse le aspettative di inflazione, che dipende in larga parte da eventi che non può controllare.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM


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Vendite al dettaglio MoM di dicembre delle Germania in uscita oggi alle 8:00 (stima 0,4% contro 1,1% di novembre), alle 11:00 il PIL dell’Europa QoQ del 4Q22 (stima -0,1% contro +0,3% del 3Q22) e dell’Italia QoQ del 4Q22 alle 11:00 (stima -0,1% contro +0,5% del 3Q22). Alle 14:00 è la volta dell’inflazione delle Germania YoY di gennaio (stima 9,2% contro 8,6% di dicembre), alle 15:45 uscirà invece il PMI Chicago di gennaio (stima 44,9 punti, invariato rispetto a dicembre) e alle 16:00 la fiducia dei consumatori MoM di gennaio (stima 109 punti contro 108,3 di dicembre).

Ieri il PIL QoQ della Germania del 4Q22 è risultato in calo dello 0,2% (stima zero). Se le attese di crescita dell’inflazione che abbiamo visto sopra dovessero essere confermate, si riproporrebbe il rischio di alta inflazione e recessione, ovvero stagflazione.

Ci siamo. Comincia domani la FED. Le attese dei mercati sono per un rialzo di 25 bp, mentre le nostre stime sono per 50 bp. Del resto, nonostante la dinamica della crescita dei prezzi sia in diminuzione, questa resta elevata (soprattutto quella core) e comunque non compatibile con la crescita sostenibile di lungo periodo del PIL.

Allo scopo di normalizzare il sistema economico, più volte Powell ha ribadito che il livello dei tassi sarebbe stato mantenuto in disequilibrio fintanto che l’inflazione non avesse mostrato convincenti segnali di riduzione verso il 2%. Ma ha anche fatto di più, aggiungendo che non si sarebbe fermato nemmeno se questo avesse comportato sacrifici di breve periodo. Insomma, un “whatever it takes”, questa volta contro l’inflazione.

Non sarebbe la prima volta che le aspettative dei mercati vengono deluse. E in questo momento la FED e i mercati non sembrano andare molto d’accordo.

Siamo invece della stessa idea dei mercati per quanto riguarda la BCE, attesa alzare i tassi di ulteriori 50 bp giovedì 2 febbraio. Anche in Europa l’inflazione rimane elevata, ma quello che riteniamo sia più grave, è che i mercati possano pensare che la crescita dei prezzi sia fuori controllo e la BCE abbia strumenti limitati per guidare il sistema economico verso l’equilibrio monetario di lungo periodo.

Se ci pensiamo bene, la BCE non ha infatti nessuna influenza sui livelli dei fiumi in Francia, sui dibattiti sulla chiusura delle centrali elettriche o sui boicottaggi alle forniture della Russia. Da questo punto di vista la BCE è uno degli osservatori dell’inflazione, come lo siamo tutti. Sta facendo il minimo indispensabile per mantenere basse le aspettative di inflazione, che dipende in larga parte da eventi che non può controllare.

Tra l’altro, se in Germania l’inflazione dovesse aumentare ulteriormente pur in presenza di pressioni disinflattive (prezzo del gas in discesa, distensione delle catene di approvvigionamento, dollaro debole etc.) il segnale sarebbe ancora più negativo. Significherebbe infatti che la crescita dei prezzi si è ormai consolidata in gran parte dei settori produttivi e dei servizi, rendendo ancora più difficoltoso guidarne la flessione: una volta che i prezzi di beni e servizi sono aumentati, difficilmente scendono (non c’è deflazione).

Insomma, l’incertezza continua a farla da padrona. Per i mercati diventano quindi cruciali sia le decisioni sui tassi che verranno prese questa settimana, ma soprattutto la risposta alla seguente domanda: dove andranno a finire i tassi di interesse nel 2023? Se negli USA il consensus di mercato si aggira nell’intorno del 5-5,25%, in Europa la situazione è decisamente più incerta.

L’aumento dei tassi potrebbe infatti fermarsi al 4%, livello che rappresenterebbe una sorta di compromesso tra la necessità di ridurre la corsa dei prezzi e portare il sistema economico verso un soft landing.

Ma potrebbe anche raggiungere il 6-7%, se l’inflazione in Europa YoY dovesse superare nel corso del 2023 il 6% in media e rimanere stabilmente sopra quella degli USA. Per combattere l’inflazione in modo significativo i tassi di interesse di riferimento dovrebbero essere per un periodo prolungato più alti del tasso di inflazione. Ma questo condurrebbe probabilmente il sistema economico verso un hard landing. Usiamo il condizionale perché forse ancora una scappatoia è possibile.

Quello che vediamo è che i governi europei stanno facendo lo stesso errore di sostegno eccessivo all’economia fatto dall’amministrazione USA (sia Trump che Biden) e, per questa, alimentano l’inflazione. Aumentando invece in modo significativo i tassi di interesse, la BCE renderebbe più costosi i finanziamenti tendendo a ridurli ma il sostegno statale e i gli aumenti salariali continuerebbero a garantire la stabilità dei consumi. L’elevato numero di posti di lavoro vacanti tenderà a diminuire soltanto quando ci saranno aspettative economiche positive. Fino ad allora, la tendenza al rialzo degli stipendi continuerà inesorabilmente, magari non nel 2023, ma sicuramente nel 2024.

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