Evergrande, una voce fuori dal coro: proteggete i portafogli!


Il mercato si sta ponendo le domande sbagliate. Analogie con i mutui subprime... cosa farà Pechino? Ci sarà un contagio? A tali quesiti oggi è difficile fornire risposte sensate. Scommettere adesso è un rischio che non vale i potenziali benefici. La mossa più difficile per un investitore: restare alla finestra per evitare il peggio e approfittarne dopo


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La convinzione comune

La convinzione comune è che Pechino interverrà per salvare il secondo maggiore sviluppatore immobiliare del Paese, Evergrande, dal default. Diversi analisti scrivono che il caso Evergrande non ha nulla a che fare con la vicenda dei mutui subprime, non contagerà la finanza, nessun caso Lehman.

A nostro avviso la domanda che il mercato si sta ponendo è sbagliata. La domanda non è se Evergrande darà il via a un altro caso Lehman, ma semplicemente se oggi ci sono più possibilità che il mercato storni ed è semplicemente arrivato il momento di proteggere i portafogli?

I grandi investitori sembrano non averci pensato due volte e sono corsi ai ripari: le posizioni aperte (open interest) sui contratti di opzioni put vicine ai recenti massime e sopra la soglia dei 10 milioni.

Il caso

Evergrande, secondo sviluppatore immobiliare in Cina, è il gruppo più indebitato al mondo, 305 miliardi di dollari di passività, bond crollati, con altrettanti interessi da pagare, oltre 1.300 progetti in corso in 280 città della Cina, 3,8 milioni di posti di lavoro tra diretti e indiretti. Giorni di manifestazioni in tutta la Cina davanti alle sedi della società per chiedere il rimborso delle obbligazioni e pagamenti di scadenze che si sono polverizzate (-70%), le azioni sono crollate del 90%. I rendimenti delle emissioni high yeld del Paese che salgono al 14,4%. 

In uno scenario di forte difficoltà per il mercato immobiliare: ad agosto le vendite di case in Cina sono crollate del 20% segnando la maggiore flessione degli ultimi 18 mesi

La nostra view: primo, cosa farà Pechino?

Questa la fotografia del gruppo. Ora i mercati danno per scontato che Pechino non si farà travolgere da un default, ma controllerà la crisi iniettando liquidità, soprattutto in vista dei prossimi appuntamenti politici della Cina.

Eppure nei giorni scorsi il redattore capo del giornale di Stato cinese “Global Times”, megafono del partito, ha dichiarato che non bisogna puntare su un salvataggio pubblico sulla base dell'ipotesi che “è troppo grande per fallire”. Un messaggio in contrasto con il vecchio adagio ”too big too fail” coniato dai mercati Usa del dopo Lehman. Come a dire noi siamo la Cina non gli Stati Uniti, gli speculatori devono pagare, prima il popolo poi il mercato.

E negli ultimi mesi da Pechino questo mantra è arrivato forte e chiaro agli investitori, prima gli obiettivi politici: una crescita moderata e condivisa e non solo pochi ricchi per venire incontro alle richieste della classe media (case scuole meno care) e maggiori possibilità per tutti. Il mercato passa in secondo piano.

In quest’ottica vanno letti gli attacchi ai grandi colossi tech. Meglio un calo delle big tech oggi per costruire in un futuro un mercato più concorrenziale e aperto, con un’ottica non di breve ma di medio lungo periodo.

Non intervenendo per il bailout ma impegnandosi nella ristrutturazione del debito, Pechino manderebbe un segnale molto forte alle banche e agli imprenditori: i livelli di debito del passato non sono più accettabili in quanto pongono il sistema Cina in una posizione di evidente fragilità, le banche devono portare avanti screening efficaci delle imprese che intendono ricorrere al servizio del debito.

Secondo, le valvole di sfogo in finanza non esistono

Non esistono valvole in grado di sgonfiare le bolle finanziare, se toccate anche con il più piccolo degli spilli, le bolle scoppiano.

Il caso Ben Bernanke insegna. L’ex numero uno della Fed era arrivato a guidare la maggiore banca centrale al mondo ben consapevole che esisteva una bolla immobiliare (in molti esperti allora lo negavano). Ottimo conoscitore e studioso della crisi del 29 era convinto che, prima si dovesse far sgonfiare la bolla immobiliare e poi inondare il mercato di liquidità, appunto mettendo una valvola, in grado di controllare il deflusso senza creare esplosioni improvvise.

Bernanke per prima cosa alzò i tassi di poco più di un quarto di punto. La bolla scoppiò, non si sgonfiò. Un botto che portò a galla di tutto. Scoprimmo cos’erano i mutui subprime e tutti i derivati, le “scatole cinesi” costruite a leva sopra i mutui stessi, ingigantendo e autoalimentando il mostro immobiliare che si era creato.

Bernanke inondò l’America di liquidità, allora si parlava di stagflazione con l’inflazione sopra il 5%. Oggi non siamo lontani da quello senario di prezzi, con l’inflazione Usa al 5,4% (sui livelli del 2008). Ma sono tutti convinti che nel breve scenderà.

Noi crediamo che le bolle non siano così evidenti prima di scoppiare, perché se lo fossero state non si sarebbero create. Tutti gli esperti e osservatori che le guardano difficilmente sono in grado di riconoscerle, anche i più bravi. Il problema è che se anche le avessero individuate, sgonfiarle pian piano è quasi impossibile.

Terzo punto: il contagio.

Il settore immobiliare in Cina pesa il 10% del Pil (alcuni scrivono il 25%), ma il problema è la finanza, soprattutto quella estera. Per aggirare i divieti agli investimenti cinesi, i mercati si sono inventati uno strumento: il VIE acronimo di «Variable interest entities». Una scorciatoia per offrire azioni cinesi negli Stati Uniti eludendo le restrizioni sulle quotazioni estere, il tutto passando da quei paesi che non brillano per trasparenza come le Isole Cayman o le Virgin Islands.

Le società cinesi che utilizzano «Variable interest entities», includono grandi nomi come Alibaba, Pinduoduo e JD.com, valgono un totale di 1.700 miliardi di dollari, secondo quanto risulta dalle stime più recenti.

Secondo il progetto Global capital allocations dell’Università di Stanford, che studia questi flussi, nel 2017 l’esposizione degli Usa era sottostimata di circa 600 miliardi di dollari mentre per la Cina e gli Usa detenevano “appena” 154 miliardi di azioni ordinarie cinesi. La posizione reale valeva molto di più, circa 700 miliardi. Dal 2017 a oggi l’interesse per la Cina è aumentato.

Cosa fare?

La domanda da porsi non è se Evergrande aprirà a un nuovo caso Lehman (non bisogna nemmeno arrivare a tanto). Non è, cosa farà Pechino. Nemmeno andare a immaginarsi come funziona il contagio. Perché a queste domande nessuno è in grado di dare risposte certe oggi.

La domanda da porsi oggi è: proteggo o meno il portafoglio?

Per noi sì, ne varrebbe la pena, finché non si saranno chiariti tutti gli aspetti di cui sopra. Inutile rischiare adesso.

Come posso proteggere il portafoglio

Acquistando minifuture short sul FtseMib se l’esposizione è soprattutto in Italia oppure, gli stessi contratti su altri sottostanti come S&P500 a seconda dello strumento che rilette meglio la mia esposizione. Ridurre le posizioni a rischio o forte leva long. Sostituire azioni con certificate ma con barriere profonde.

La parte più difficile dell’investitore è rimanere per un po’ alla finestra e guardare cosa succede. Ma tante volte è proprio schivando le grane, i bubboni, che si va lontano e si approfitta successivamente delle occasioni che si sono create.

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