La sostenibile leggerezza del lusso


Nel disastro dei lockdown, con attività commerciali e produttive chiuse, con il blocco dei consumi, uno dei settori più colpiti che ha però reagito con criteri si sostenibilità sociale è stato quello del lusso.

A cura di Carlo Benetti Market Specialist di GAM (Italia) SGR S.p.A.


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Indietro non si torna

“Eccomi di nuovo al Tesoro, come un decimale ricorrente, ma con una differenza decisiva. Nel 1918 l’opinione prevalente era quella di tornare all’ordine che precedeva il 1914, oggi nessuno pensa di tornare alle condizioni del 1939. E questo farà una differenza enorme quando ci occuperemo della questione”. Siamo nel 1942, John Maynard Keynes ha lasciato l’università ed è tornato al servizio del governo al Ministero del Tesoro. Keynes parla di un ritorno perché aveva già prestato servizio al Ministero circa vent’anni prima. In qualità di delegato del Cancelliere dello Scacchiere aveva preso parte ai lavori della Conferenza per la pace di Versailles nel 1919. In quella occasione, il profondo disaccordo sulle misure punitive imposte alla Germania lo portarono ad abbandonare i lavori della Commissione e a dare le dimissioni dal ministero. “Lavoro per un governo che detesto, per finalità che ritengo siano criminali” aveva scritto tempo prima all’amico Duncan Grant. Nell’estate del 1919, a Cambridge, l’economista mise nero su bianco le ragioni del suo dissenso nel libro “Le conseguenze economiche della pace”. La storia diede ragione a Keynes, la gravosità delle sanzioni aveva fiaccato l’economia tedesca e alimentato il rancore anti-democratico, il Trattato di Versailles non fu “una pace ma un armistizio di vent’anni” come lo definì con acuta lungimiranza il generale francese Ferdinand Foch. Vent’anni dopo, durante un’altra guerra, Keynes è nuovamente al servizio di Sua Maestà, questa volta con la grande differenza che nessuno pensava di tornare, con la pace, “alle condizioni del 1939”.

Tutti, non solo Keynes, erano convinti della necessità di fondare un ordine globale del tutto diverso da quello che aveva precipitato l’Europa e il mondo in due sanguinose guerre nel giro di due decenni. L’architettura del nuovo ordine mondiale venne pensata e realizzata nel 1944 a Bretton Woods, c’era ancora la guerra ma si cominciava a pensare alla pace.

Non tutte le idee di Keynes prevalsero, ma tutti i 44 paesi che parteciparono alla conferenza erano concordi sul fatto che era necessario un radicale ripensamento delle relazioni internazionali, che era indispensabile evitare gli errori di venticinque anni prima.

L’ordine monetario e politico disegnato all’Hotel Mount Washington nell’estate del 1944 è quello che ha retto gli equilibri globali per i successivi settant’anni, fondato sulla centralità degli Stati Uniti e del dollaro, su ordinamenti democratici, sull’apertura del commercio e sulla solidarietà internazionale. Come tutte le costruzioni umane, anche l’equilibrio di Bretton Woods fu un equilibrio imperfetto, l’America Latina non è stata un modello di liberaldemocrazia, gli Stati Uniti esercitarono la loro influenza in modi anche brutali. Quanto al libero commercio, anche in passato gli Stati Uniti non hanno mai esitato a utilizzare dazi e tariffe sulle importazioni. In ogni caso, il bipolarismo imperfetto del secondo dopoguerra ha garantito stabilità e diffusione del benessere. Da tempo l’edificio di Bretton Woods mostrava i segni del tempo, la pandemia ha solo allargato le crepe, ha ulteriormente indebolito i pilastri portanti. Non si tratta solo della fine del bipolarismo seguita all’implosione dell’Unione Sovietica. Sono messi in discussione i principi che ispirarono il sistema di Bretton Woods: si sono affermati nuovi modelli economici il cui successo non è riconducibile all’apertura al mercato, a ordinamenti democratici, alla libertà dei cittadini. Si stanno facendo sentire le prime conseguenze economiche dell’emergenza sanitaria, i milioni di persone che nel giro di tre mesi si sono trovate prive di lavoro e di redditi contribuiscono ad aumentare l’entropia all’interno delle nazioni liberal democratiche, lo dimostrano le drammatiche cronache dagli Stati Uniti.

La competizione tra grandi potenze diventa scontro tra modelli politici opposti e lotta sempre più aperta per l’egemonia geopolitica. La Cina esercita “soft-power” con la politica delle mascherine inviate in tutto il mondo, ma non esita ad adottare modi muscolari a Hong Kong o nel Mar della Cina meridionale, o una diplomazia aggressiva, come è accaduto con la Svezia, la Francia o l’Australia. Negli Stati Uniti le tensioni sociali si fanno sempre più evidenti e drammatiche, secondo la Federal Reserve di St. Louis la disoccupazione del secondo trimestre potrebbe superare il 32%. Per avere un termine di confronto, toccò il 25% negli anni della Grande Depressione, nella crisi del 2009 arrivò al 10%.

Come abbiamo detto più volte, la pandemia è un acceleratore di fenomeni e di condizioni già in essere e una delle questioni che sta emergendo come prioritaria è la sostenibilità ambientale. Con o senza virus, prima o poi il conto sarebbe arrivato, il Covid-19 ha solo accelerato il cambio delle priorità, la salute e la sicurezza hanno prevaricato le ragioni della crescita. Ma la contrapposizione tra salute e sviluppo è insostenibile, l’opposizione tra diritto alla salute e diritto al lavoro insensata; è necessario ripartire ma, parafrasando le parole di Keynes, nessuno dovrebbe pensare di tornare semplicemente “alle condizioni di prima”. Proprio come settant’anni fa, la Storia è a un punto di flesso, la pandemia ha chiuso i primi vent’anni del nuovo secolo e apre un capitolo del tutto nuovo, accelerando la necessità di una nuova governance globale. Come a Bretton Woods, c’è bisogno di capacità di visione nel lungo termine, dell’intelligenza che discerne, del coraggio delle scelte radicali.

L’opportunità offerta dal Covid

Per quanto riguarda il nostro paese, e l’Europa, le risorse straordinarie rese disponibili dalla cooperazione europea costituiscono un’ottima occasione per promuovere adeguate politiche del lavoro e industriali, per accelerare la transizione energetica e digitale, per diminuire le disuguaglianze investendo nell’istruzione, formidabile motore dell’ascensore sociale, come sanno bene i baby-boomer. Facilitare l’accesso all’istruzione scolastica e l’innalzamento delle competenze professionali è lo strumento di policy più efficace per contrastare le disuguaglianze. Nel tessuto lacerato della coesione sociale è urgente ricostituire la fiducia e a questo proposito sono interessanti le conclusioni del rapporto Edelman Trust Barometer 2020, una ricerca condotta in 28 paesi con oltre 34.000 intervistati.

L’indagine conferma come la fiducia sia l’ingrediente decisivo del successo in qualsiasi attività, declinata nelle forme della competenza e dei comportamenti etici. L’83% degli intervistati teme di perdere il lavoro, il 66% ha paura che la tecnologia digitale sfugga di mano, il 57% non si fida dell’informazione e il 76% teme che le notizie false siano usate come arma nella competizione politica. I temi che stanno più a cuore alla pubblica opinione internazionale sono il cambiamento climatico, lo sviluppo della tecnologia, le disuguaglianze, la parità di genere. Ma è interessante notare come le istituzioni pubbliche non siano considerate luoghi di competenza e tantomeno di comportamenti etici.

Aziende: fonte di competenza e affidabilità

Competenza e affidabilità sono invece attribuite alle aziende, considerate motore dell’innovazione e generatori di valore per gli azionisti; più dei governi, le aziende sono considerate le vere anime del cambiamento. Il 93% dei lavoratori dipendenti intervistati pensa che il proprio amministratore delegato abbia il dovere di intervenire nel dibattito politico, influenzare le discussioni su temi come l’impatto dell’automazione sui posti di lavoro, sulla disuguaglianza dei redditi, sull’eticità dell’uso delle tecnologie o sul cambiamento climatico.

Il sondaggio è stato condotto nell’autunno del 2019, prima che la pandemia travolgesse governi e imprese sotto la stessa, grande ondata. Nel disastro dei lockdown, con attività commerciali e produttive chiuse, con il blocco della mobilità e dei consumi, uno dei settori più colpiti e che ha comunque reagito secondo le aspettative del sondaggio è stato quello del lusso. Le grandi società del settore hanno adottato per tempo processi produttivi e governance orientati alla sostenibilità sociale e ambientale. Il settore del lusso e l’industria della moda sono abituati all’esposizione mediatica, sanno quanto sia importante interpretare correttamente le nuove sensibilità dei consumatori delle generazioni più giovani, i Millennial e la Generazione Z. All’interno della generazione dei Millennial le società di consumo hanno individuato il segmento per loro più interessante e promettente, quello degli “affluent” di recente affermazione, i cosiddetti “HENRY”, acronimo di High-Earners-Not–Rich-Yet, persone con un reddito compreso tra 100.000 e 250.000 dollari, età media di poco superiore a 40 anni, con un patrimonio finanziario non superiore al milione di dollari. Nonostante l’impatto della chiusura dei negozi sui conti economici, i gruppi del lusso hanno fatto la loro parte durante i lockdown, hanno tutelato i dipendenti evitando i licenziamenti e garantendo i livelli salariali standard.

Lusso nel focus degli investitori

Swetha Ramachandran di GAM, esperta del settore, scrive nel suo ultimo report che “le aziende del lusso hanno sostenuto direttamente le comunità locali con donazioni in natura oppure attraverso la produzione e la donazione di dispositivi medicali”. Il settore è fortemente esposto alle conseguenze della pandemia, il 35% del mercato è cinese e una forte contrazione nel 2020 è nei fatti. Ma se spostiamo lo sguardo oltre, come del resto sembra stiano facendo i listini dall’”umor allegro”, come scrive l’Economist, il settore del lusso continua a meritare l’attenzione degli investitori.

Sta riprendendo l’attività economica in Asia, si diffonde la familiarità con gli acquisti online, aumenta la sensibilità del settore ai criteri della sostenibilità sociale e ambientale. Buone pratiche nei rapporti con i dipendenti, tutela delle catene di fornitura, attenzione alle questioni ambientali, marketing basato sulla trasparenza e l’ascolto, l’uso intelligente della multi-canalità, rafforzano la reputazione dei marchi. Perché la moda passa, la reputazione resta: le grandi griffe fanno leva sulle nuove abitudini di consumo e sulla sensibilità sociale e ambientale dei Millennial e della Gen Z, che a breve costituiranno oltre la metà dei consumatori. A differenza dei loro genitori, gli acquisti dei Millennial non sono orientati all’esclusività o alla distinzione sociale ma all’auto-gratificazione del possesso di oggetti di qualità, realizzati con materiali naturali, destinati a durare a lungo.

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