Guerra Usa-Iran: dollaro e petrolio restano in bilico

Il Brent ha fatto un balzo dimostrativo oltre gli 80 dollari, ma ha subito ripiegato a 76,5 dollari, in calo rispetto a venerdì. Lieve rafforzamento del dollaro. Il grande rischio è che Teheran decida di bloccare lo Stretto di Hormuz, ma per gli analisti sarebbe un atto autolesionistico
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Valutare il rischio di una possibile escalation militare
Mercati in fibrillazione dopo l’attacco aereo degli Stati Uniti contro le principali installazioni nucleari iraniane. Alla riapertura delle contrattazioni, lunedì mattina, le quotazioni di oro, petrolio e dollaro non si discostano un granché dai prezzi di chiusura di venerdì. Gli investitori sono in uno stato di ansia per il timore di un’escalation militare con pesanti ricadute sull’economia mondiale.
All’apertura dei mercati, in Asia, il prezzo del Brent ha superato brevemente gli 80 dollari al barile, ma poi ha rapidamente ripiegato, visto che la chiusura dello Stretto di Hormuz non sembra al momento probabile. A metà mattina il Brent quota a 76,5 dollari, in calo dello 0,6% da venerdì.
Anche il dollaro ha mostrato nei primi scambi segnali di rafforzamento, ritrovando la sua funzione di bene rifugio. Il cross con l’euro è a 1,149, in calo dello 0,2% da 1,152 della chiusura precedente.
Facendo i confronti di che cosa è successo sui mercati negli ultimi 10 giorni, ovvero dal 13 giugno, il giorno in cui Israele ha sferrato l’attacco all’Iran, spicca il rialzo del petrolio, con il Brent salito di quasi il 12%, mentre l’indice mondiale delle Borse MSCI All Country World ha registrato un calo contenuto dell’1,8%.
FOTOGRAFIA DEI MERCATI DOPO 10 GIORNI DI ATTACCHI ALL’IRAN
E’ evidente che le prospettive di petrolio e dollaro restano legate all’evoluzione geopolitica nelle prossime settimane. Le parole chiave sono incertezza e volatilità. In un contesto ancora fluido, gli investitori faticano a distinguere tra reazione emotiva e cambiamento strutturale. La risposta di Teheran sarà decisiva non solo per l’andamento delle materie prime, ma anche per l’intero equilibrio dei mercati globali.
Cosa succederebbe con la chiusura di Hormuz
Secondo gli analisti di Morgan Stanley, uno scenario di rapida de-escalation potrebbe riportare il prezzo del Brent nella fascia dei 60 dollari, ma in caso di tensioni prolungate, le quotazioni potrebbero restare sopra i livelli attuali. “Interruzioni fondamentali dell’offerta globale di petrolio, con un possibile blocco dei flussi nella regione, spingerebbero i prezzi molto più in alto”, avvertono. Anche Goldman Sachs sottolinea i rischi: una riduzione del 50% dei flussi attraverso lo Stretto di Hormuz per un mese, seguita da un calo del 10% per quasi un anno, porterebbe il Brent a picchi temporanei attorno ai 110 dollari al barile. Il mercato, stima la banca newyorchese, sta già scontando un premio geopolitico di circa 12 dollari.
“Per Teheran sarebbe un atto suicida”
A livello strategico, l’opzione iraniana di chiudere lo Stretto di Hormuz – da cui transita circa il 20% del petrolio mondiale – appare al momento remota. “Sarebbe un atto suicida”, osserva Bob McNally di Rapidan Energy Group, “ma l’Iran potrebbe comunque interferire in modo indiretto, attraverso attacchi cyber o sabotaggi mirati”. Concorda anche Vandana Hari di Vanda Insights: “Un blocco totale allontanerebbe i partner commerciali di Teheran, come la Cina, e danneggerebbe anche le esportazioni iraniane”.
Tuttavia, i rischi ci sono. Muyu Xu di Kpler avverte: “Se lo Stretto venisse bloccato anche solo per un giorno, i prezzi del petrolio potrebbero schizzare temporaneamente a 120 o 150 dollari”. Le alternative logistiche sono infatti molto limitate: le capacità di bypass dei flussi marittimi sono inferiori ai volumi potenzialmente bloccati
Il dollaro torna bene rifugio, ma per quanto?
Sul fronte valutario, il biglietto verde ha guadagnato terreno, sostenuto da un ritorno alla logica del “flight to quality”. “Il dollaro sta ricevendo una domanda per ricerca di sicurezza come non accadeva da tempo”, spiega Jayati Bharadwaj di TD Securities. Tuttavia, la dinamica potrebbe rivelarsi temporanea. Per Pictet Asset Management, rappresentata da Evgenia Molotova, “la vera cartina al tornasole sarà un eventuale blocco di Hormuz, che metterebbe a rischio la stabilità dell’approvvigionamento energetico globale”.
Morgan Stanley ricorda che, al di là delle reazioni emotive, i fondamentali macro restano orientati verso un indebolimento della valuta americana. Anche per Goldman Sachs la recente forza del dollaro potrebbe essere più reattiva che strutturale.
Le opinioni degli altri osservatori
Secondo Helima Croft di RBC Capital Markets, è prematuro dichiarare che il peggio sia passato: “L’Iran ha molte opzioni a disposizione, dalle azioni dirette a quelle per procura in Iraq o Yemen”. Charu Chanana di Saxo Markets è ancora più esplicita: “L’attacco segna un punto di svolta: non è scontato che gli asset Usa mantengano il loro premio di credibilità. Se l’Iran colpisce asset navali americani o se lo stallo si prolunga, la pressione al rialzo sul petrolio e sull’inflazione potrebbe accelerare la perdita di appeal del dollaro”.
Ole Hansen di Saxo Bank sottolinea che il premio di rischio geopolitico (attualmente stimato oltre i 10 dollari al barile) “non può essere mantenuto a lungo in assenza di una concreta interruzione dell’offerta”. Ma se il conflitto dovesse allargarsi, tale rischio diventerebbe molto più concreto.
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