Ha senso alzare al 3% l'obiettivo di inflazione?


Il membro del Consiglio Direttivo della BCE (e governatore della Banca di Francia) Francois Villeroy de Galhau, ha respinto con forza il suggerimento di alzare l’obiettivo di inflazione dal 2% ritenuto da diversi analisti non realistico. Il problema non è nuovo, ma è diventato attuale recentemente.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM


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Secondo lettura dell’inflazione della Germania YoY di giugno alle 8:00 che dovrebbe essere in linea con il dato del 6,5% uscito il 29 giugno scorso. Produzione industriale dell’Italia MoM di maggio alle 10:00 (stima +0,7% contro -1,9% di aprile). Indice ZEW di luglio alle 11:00 (stima -10 punti contro -8,5 di giugno). Le attese degli investitori sono concentrate su domani, in cui uscirà l’inflazione USA prevista in ulteriore deciso calo al 3,1% contro il 4% di maggio.

Nel corso di una conferenza economica ad Aix-en-Province, Francois Villeroy de Galhau, membro del Consiglio Direttivo della BCE (e governatore della Banca di Francia), ha respinto con forza il suggerimento di alzare l’obiettivo di inflazione dal 2% ritenuto da diversi analisti non realistico. Secondo Villeroy, l'obiettivo è quello di portare l'inflazione al di sotto dell'obiettivo del 2% entro il 2025. Ovviamente non ha fatto nessun riferimento alla crescita economica, che come sappiamo non rientra tra gli obiettivi della BCE.

Secondo Villeroy, il rialzo dell’obiettivo per esempio al 3%, come la banca centrale cinese, rappresenterebbe una “falsa buona idea” perché comporterebbe costi più elevati sui prestiti, anziché abbassarli. Ma, aggiungiamo noi, anche il continuo rialzo dei tassi comporta un aumento del costo sui prestiti. La differenza sta nelle aspettative. Gli ha fatto eco il ministro delle finanze francese, Le Maire, affermando che sarebbe opportuno aprire comunque una discussione senza preclusioni. Ma non esiste una evidenza empirica che questo accadrebbe.

Il problema non è nuovo. Dall'avvento dell'inflation targeting negli anni '90, le economie avanzate si sono coalizzate attorno a un obiettivo comune del 2%, facile da raggiungere per le banche centrali, con le condizioni economiche e monetarie dell’epoca. Obiettivo che è diventato difficile negli ultimi anni, poiché l'inflazione è salita al livello più alto mai visto da una generazione. Ciò ha acceso un dibattito sul fatto che le banche centrali debbano abbandonare l'onnipresente obiettivo del 2% e puntare invece su un'inflazione più elevata.

I fautori di un obiettivo di inflazione del 3% o addirittura del 4% sostengono che questo comporterebbe tassi nominali più elevati che ridurrebbero il rischio che le banche centrali siano vincolate dal limite inferiore effettivo, o "ELB", in quanto avrebbero più spazio per ridurre i costi di indebitamento di fronte a una recessione economica. È una soluzione apparentemente semplice al problema che ha afflitto le banche centrali negli anni successivi alla crisi finanziaria globale.

Ma le cose non sono mai così semplici come sembrano. Secondo i detrattori del 2%, non è detto che l’alzare l’obiettivo di inflazione significa che poi effettivamente questa sia in grado di convergere verso l'obiettivo più alto. Ma non è detto nemmeno il contrario. Inoltre è meno difficile raggiungere il 3% che il 2%. Ma questa è una di quelle sfide che la Banca del Giappone conosce fin troppo bene. Circa 10 anni fa, ha alzato il suo obiettivo di inflazione dall'1% al 2% nel tentativo di superare la deflazione cronica. E per aiutare l'inflazione lungo il suo percorso, ha avviato un colossale allentamento quantitativo che ha visto il suo bilancio salire dal 30% al 130% del PIL. Ebbene, non ha funzionato. Escludendo un aumento delle tasse nel 2014, l'inflazione è rimasta ostinatamente contenuta, almeno fino alla recente rinascita globale.

Vero è che l'economia del Giappone è in qualche modo unica. Ma nello stesso periodo anche i paesi del G7 hanno avuto livelli persistentemente bassi di inflazione. Un fattore determinante è stata la crisi finanziaria, che ha aperto un output gap del G7 pari al 5,8% circa del PIL e che ha richiesto diversi anni per ridursi. Un'altra è stata la globalizzazione, in particolare dopo l'adesione della Cina all'Organizzazione mondiale del commercio nel 2001. Così come l'innovazione e le interruzioni tecnologiche, come gli smartphone e i servizi in abbonamento. Ma oggi il mondo è cambiato e la storia soprattutto economica, non si ripete mai uguale.

E’ possibile che alcune tendenze disinflazionistiche si invertano. Potremmo essere in un cambio di regime verso un mondo meno globalizzato, con la priorità della, rispetto alle considerazioni sull'efficienza e sui costi che hanno caratterizzato il modello globalizzato delle catene di approvvigionamento estese negli ultimi decenni. Ma il cambio tra un modello economico di sviluppo ed un altro non è mai indolore e potrebbe tradursi in una maggiore stagflazione, spingendo verso l'alto l'inflazione e rallentando la crescita globale.

A problemi nuovi, occorre trovare soluzioni nuove e innovative e ciò che non ha funzionato in passato potrebbe invece funzionare ora.

Rispetto al passato oggi ci sono in gioco altre importanti variabili. Ci si chiede per esempio se l'invecchiamento della popolazione sarà in ultima analisi inflazionistico o deflazionistico. Ma anche se il progresso tecnologico possa agire da vento contrario all'inflazione: che succede per esempio se l’avvento dell'intelligenza artificiale generativa porta ad un diffuso spostamento dei lavoratori?

Un altro punto importante da capire è se un'inflazione più elevata debba essere tollerata ma solo in presenza di un miglioramento della crescita della produttività. La maggior parte degli studi empirici trova una correlazione negativa tra i due. Qui il problema è diverso. E’ vero che un target di inflazione più elevata potrebbe contribuire a stimolare gli investimenti delle imprese. Ma se la produttività rimane bassa e anche altri paesi non alzano i loro obiettivi di inflazione, ci sarà una graduale erosione della competitività e un deterioramento del tenore di vita.

L'innalzamento dell'obiettivo di inflazione rischia anche di danneggiare la credibilità delle banche centrali. Alzare i propri obiettivi in ​​mezzo a un'inflazione elevata potrebbe dare l'impressione di non avere il controllo e rischiare di disancorare le aspettative di inflazione oltre il nuovo obiettivo più alto. Qui il terreno è sicuramente molto scivoloso. Si potrebbe infatti sostenere anche il contrario, ovvero che di fronte a rischi potenziali (e quando non ce ne sono) nell’innalzare il target di inflazione, le banche centrali hanno preferito non attuarlo (perdendo quindi credibilità) pur intravedendo dei benefici potenziali per l’intera economia.

L'inflazione sembra destinata ad essere strutturalmente più alta in questo decennio rispetto all'ultimo. Quindi non ha senso economico e finanziario fare riferimento ad un mondo che non esiste più. Più in generale, il punto fondamentale è che ha poco senso per una banca centrale avere un obiettivo di stabilità dei prezzi senza che la sua azione possa avere effetti sul lato dell’offerta ma solo su quella della domanda.

Fino a che questi criteri non saranno soddisfatti, siamo d’accordo con Villeroy: è prematuro parlare di abbandonare l'obiettivo di inflazione del 2%.

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