Il mondo secondo Trump, scenari e implicazioni

La presidenza di Donald Trump sta segnando in profondità l’economia e la geopolitica internazionale. Tra nuove guerre commerciali, tensioni diplomatiche, tentativi di controllo sulla Fed e promesse mantenute a metà, il 2025 appare come un anno di rottura. Le scelte dell’amministrazione americana mirano a una crescita nominale elevata capace di ridurre il peso del debito, anche al costo di più inflazione e maggiore incertezza globale.
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Promesse e mosse di Trump
L’inizio del 2025 ha mostrato quanto l’intelligenza artificiale non sia un dominio esclusivamente statunitense, con il “Deepseek Day” che ha posto la Cina sotto i riflettori. Come ricorda Frédéric Leroux, head of cross asset team di Carmignac, i mercati sviluppati hanno reagito con nervosismo: Nvidia ha perso oltre il 40% tra gennaio e aprile, salvo poi raddoppiare in pochi mesi, confermando che l’entusiasmo per l’AI resta intatto. In questo contesto, Trump non cavalca il trend tecnologico, ma continua a imporre la propria agenda politica ed economica.
Emblematico, secondo Leroux, è stato il cosiddetto “Zelensky Day”, quando l’umiliazione pubblica del presidente ucraino da parte dell’amministrazione statunitense ha spinto la Germania a interrogarsi sulla propria autonomia strategica. Poco dopo, il “Liberation Day” ha coinciso con l’avvio di nuovi dazi americani dal luglio 2025, applicati con la logica del “The Art of the Deal”: minacciare tariffe al 60% per ottenere l’accettazione di un livello più basso, pari al 15%. L’Europa, con Ursula von der Leyen in prima linea, ha ceduto terreno, mentre la Cina ha compreso che le proprie esportazioni sarebbero state le più colpite, cercando di contrastare gli effetti deflazionistici della sovrapproduzione interna.
Intanto, sottolinea Leroux, l’estate ha portato un evento dirompente: l’esercito americano ha bombardato gli impianti nucleari iraniani senza generare un conflitto regionale aperto. All’ombra di questi episodi, l’immigrazione negli Stati Uniti si è fermata, il dollaro e il prezzo del petrolio hanno perso valore, mentre sul fronte interno si preparano tagli fiscali e deregolamentazione, in linea con le promesse elettorali.
Controllo e politica economica
Il presidente americano non si limita a mantenere gli impegni presi: licenzia funzionari ritenuti non allineati e acquisisce partecipazioni gratuite in aziende sostenute da fondi pubblici o contratti statali. Dopo Intel, spiega Leroux, il settore della difesa potrebbe diventare il prossimo bersaglio di questa strategia, pensata per finanziare i tagli fiscali anche attraverso nuovi dazi e risorse straordinarie.
L’iniziativa più radicale resta però il tentativo di prendere il controllo della Federal Reserve (Fed), riducendone l’indipendenza. Questa mossa, osserva Leroux, paragonabile a pratiche diffuse nei Paesi emergenti, è spiegata dalla necessità di gestire l’inflazione e sostenere la crescita nominale. Eppure, molte delle scelte di Trump hanno effetti inflazionistici: il deprezzamento del dollaro, la deglobalizzazione, l’arrivo di grandi aziende straniere sul suolo americano, la ripresa degli investimenti tedeschi e le politiche cinesi anti-deflazione. A queste si aggiungono immigrazione bloccata, aumento dei dazi e forme di nazionalizzazione. Una Fed sotto influenza politica difficilmente potrebbe adottare politiche restrittive, e questo rischia di spingere ulteriormente l’inflazione.
Più Main Street e meno Wall Street
Il quadro complessivo, spiega Leroux, segna la fine della cosiddetta "Pax Americana", basata su protezione militare e commerciale in cambio del finanziamento del doppio deficit statunitense. Questa logica non garantisce più benefici alla classe media, che pur in un contesto di piena occupazione vede il proprio potere d’acquisto in calo da decenni.
Leroux sottolinea che il progetto di Trump è un isolazionismo accompagnato da forte crescita nominale, fatta di crescita reale e inflazione. L’obiettivo è ridurre il rapporto debito/Pil, risultato irraggiungibile in un contesto di tassi bassi e crescita lenta. In questo senso risuonano le parole di Scott Bessent, secondo cui la politica di Trump guarda a Main Street più che a Wall Street, puntando a rilanciare il potere d’acquisto della classe media piuttosto che a far brillare i mercati azionari.
Il modello richiama i “Trente Glorieuses” francesi, quando l’inflazione non impedì l’ascesa della classe media. La sfida oggi è verificare se questo esperimento riuscirà o meno: la velocità del deprezzamento del dollaro e l’aumento dei rendimenti obbligazionari saranno i segnali cruciali del possibile successo o fallimento di una politica tanto esplosiva quanto rischiosa.
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