Inflazione e disoccupazione guideranno le azioni della FED


La FED è preoccupata che mercato del lavoro frizzante ritardi la riduzione della dinamica salariale.

A cura di Antonio Tognoli, Responsabile Macro Analisi e Comunicazione presso Corporate Family Office SIM


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PMI composito USA di gennaio in uscita oggi alle 15:45 (stima 45,2, contro 45 di dicembre). Il pezzo forte ci sarà giovedì alle 14:30 con i dati di PIL USA del 4Q22 (stima 2,6% contro 3,2% del 3Q22) e gli ordini di beni durevoli MoM di dicembre (stima +2,6% contro -2,1% di novembre).

Nei prossimi mesi la conduzione della politica monetaria della FED sarà sostanzialmente guidata da due dati: l’inflazione e la disoccupazione. Sulla prima, come abbiamo detto ieri, ci aspettiamo una dinamica in significativa flessione nel corso del 2023, grazie ad un effetto statistico, al rialzo dei tassi di interesse, alla deflazione e all’effetto di sostituzione dei fornitori.

Analizziamo invece il mercato del lavoro. Come sappiamo la preoccupazione della FED è che il surriscaldamento del mercato del lavoro impedisca, o ritardi di molto, la riduzione della dinamica salariale. Quest’ultima ha infatti contribuito fortemente alla retorica da falco della FED che, come noto, prevede un obiettivo sopra al 5% come punto d’arrivo dei Fed Fund e una sostanziale stabilità a quel livello sino a quando l’inflazione non sia avviata a tornare stabilmente all’obiettivo del 2%.

Questo significa che la condizione necessaria per vedere un Powell meno falco, sia una relativa stabilità dei salari: una crescita non superiore al 3,5%, che dovrebbe essere il livello compatibile con un 2% di inflazione, tenendo conto anche della dinamica della produttività che si attesta al momento nell’intorno dell’1,5%. Ai livelli attuali di disoccupazione (3,5%) non vediamo però un’inversione di tendenza a breve, considerato soprattutto che domanda e offerta di lavoro rimangono ancora distanti.

Nel corso della pandemia numerosi lavoratori hanno optato per la pensione lasciando vacanti molti posti di lavoro, professionali e non professionali. Da questo punto di vista, il miglior modo per ridurre lo squilibrio sarebbe un recupero della forza lavoro, anche se è difficile pensare ad un ritorno di coloro che si sono ritirati durante il Covid.

Probabilmente si passerà quindi attraverso un calo della domanda di lavoro. Questo può avvenire in due modi: con una riduzione dei posti vacanti senza troppi danni all’occupazione, oppure tramite una distruzione di occupazione e quindi un conseguente aumento della disoccupazione.

Per contenere gli aumenti salariali, la disoccupazione dovrebbe crescere di 1-1,5 punti percentuali e raggiungere il 4,5-5%, aprendo tuttavia le porte ad una recessione che potrebbe trasformarsi da soft a hard. La discriminante sono i tempi. Un lento aggiustamento dell’inflazione salariale porterebbe ad accettare tempi mediamente lunghi per raggiungere l’obiettivo del 2% di inflazione. Viceversa, un aggiustamento veloce potrebbe essere possibile solo a patto di ridurre fortemente la domanda aggregata e per questa via la crescita del PIL (altro che soft landing). Difficile che le imprese optino per questa soluzione, soprattutto in una fase in cui la domanda di lavoro supero ancora l’offerta.

Sicuramente la riduzione dell’inflazione passa necessariamente da un mercato del lavoro più debole. E questo rende probabile la recessione: sarebbe la recessione più annunciata della storia. La domanda è: visto che i mercati ne sono a conoscenza, lo hanno già scontato nei prezzi?

Per il momento gran parte degli analisti è concorde nel ritenere che Powell darà il classico colpo alla botte e al cerchio. Nel senso che probabilmente accetterà tempi maggiori per raggiungere l’obiettivo di inflazione rispetto a quanto preventivato solo sei mesi fa, consentendo un atterraggio morbido dell’economia e portando gradualmente la disoccupazione al 4,5-5%.

Se dunque di atterraggio morbido si parla, meno chiaro è quanto si dovrà stare a terra. In altre parole, non è possibile conoscere la durata della recessione. Ovviamene questo aspetto è fondamentale per cercare di capire le performance dei mercati finanziari nel 2023.

La statistica può venirci in aiuto, ma dobbiamo tenere ben presente che ogni ciclo economico è diverso e, mai come in questo caso, il ventaglio di potenziali esiti ci sembra piuttosto diverso. Sono ovviamente da guardare le strategie messe a punto dalla banca centrale nelle passate recessioni, ma questo non deve distoglierci dal considerare i drivers cha hanno guidato la contrazione attuale.

Siamo convinti che il 2023 possa portare interessanti opportunità di investimento. Per esempio tutte quelle società il cui prezzo già sconta la contrazione registrata dai rispettivi settori di appartenenza. Se è vero che la profondità della recessione è incerta, è possibile però individuare società nelle aree tecnologiche, dei consumi e industriali che stanno già scontando un rallentamento significativo. Crediamo che ai livelli attuali di prezzo, una buona parte di titoli di questi settori offra un rischio/rendimento interessante.

Se allunghiamo l’orizzonte temporale, il quadro complessivo tende a migliorare in modo sostanziale grazie al Build Back Better Act, pacchetto di investimenti e sussidi voluto dalla presidenza Biden che ha stanziato 1.750 miliardi di dollari per investimenti infrastrutturali, territorializzazione delle catene di fornitura, aumento della spesa per il settore manifatturiero e transizione energetica. Lo sforzo dell’amministrazione nel sostenere gli investimenti è destinato a produrre positivi cambiamenti nell’economia reale almeno per i prossimi 5/7 anni.

Di una cosa siamo certi: il prossimo decennio di leadership del mercato azionario sarà probabilmente molto diverso da quanto visto recentemente: il picco della globalizzazione, l’onshoring e i crescenti rischi geopolitici stanno creando cambiamenti strutturali significativi all’interno dell’economia USA e questo contribuirà a tenere più elevati i tassi di interesse e l’inflazione rispetto agli ultimi 10 anni.

La maggiore consapevolezza della disruption tecnologica, che ha costituito uno dei maggiori talloni d’Achille delle aziende value negli ultimi dieci anni, contribuirà probabilmente a sostenerne gli utili. Questi cambiamenti avvantaggeranno le società con flussi di cassa a breve termine e duration più breve.

In futuro riteniamo tuttavia che la valutazione e il rendimento da dividendi saranno probabilmente fattori di differenziazione più forti. In altre parole, l’investimento in società value dovrebbe essere più competitivo rispetto ad altre strategia di investimento.

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