Inflazione Usa sotto la lente, il mercato cerca risposte

L’inflazione americana torna al centro del dibattito con il dato CPI di maggio attesissimo da mercati e analisti. La Federal Reserve, sempre più “data dependent”, resta cauta in attesa di segnali concreti. Ecco perché il ciclo dei tassi non è affatto scontato.
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Il ritorno dell’inflazione come variabile centrale per i mercati
C’è stato un tempo in cui il dato sull’inflazione al consumo (CPI) interessava solo accademici e banchieri centrali. Ma dal 2022, con l’inflazione ai massimi da quarant’anni, ogni pubblicazione mensile è diventata un evento cruciale. I mercati osservano ogni variazione con attenzione quasi ossessiva, nella consapevolezza che la Federal Reserve (Fed) è ormai totalmente guidata dai dati.
Tuttavia, è fondamentale ricordare, come sottolinea Gabriel Debach, market analyst di eToro, che il CPI non è la metrica ufficiale per la politica monetaria della Fed: il riferimento principale resta il PCE (Personal Consumption Expenditures). Ma se il PCE orienta le decisioni, è il CPI a muovere le aspettative. E questo lo rende estremamente influente nel breve termine. Il consenso si aspetta a maggio un CPI in aumento dello 0,2% mese su mese per l’indice headline e dello 0,3% per il core, con inflazione annua attesa al 2,5% e 2,9% rispettivamente.
Una narrativa in mutazione: da ottimismo a nuova incertezza
Il 2025 era iniziato con un cauto ottimismo. Il tono della Fed lasciava intravedere un percorso graduale verso la disinflazione, con rischi macroeconomici “in equilibrio”. Tuttavia, i primi segnali dell’anno hanno smentito queste speranze. I dati hanno sorpreso al rialzo, le aspettative d’inflazione sono risalite e l’effetto delle nuove tariffe commerciali si è rivelato più persistente del previsto.
Nel Summary of Economic Projections (SEP) di marzo, la proiezione mediana del PCE core è stata rivista dal 2,5% al 2,8%. Il linguaggio della Fed si è adeguato, riconoscendo che i rischi non erano più bilanciati ma “spostati verso l’alto”. Come sottolinea Debach, si è tornati a un livello di incertezza che non si vedeva da oltre vent’anni, con un chiaro allarme sulla persistenza dell’inflazione.
Le tariffe amplificano i rischi e rinviano i tagli
Il dato di aprile, con un’inflazione headline al 2,3% e core al 2,8%, suggerisce una lieve decelerazione. Tuttavia, ciò non ha placato le tensioni: le tariffe annunciate sono ben più ampie di quanto previsto e rischiano di avere effetti duraturi. Il consenso tra gli analisti è che l’impatto si farà sentire soprattutto nei beni core, generando aumenti una tantum nei prezzi, ma sufficienti a ritardare il ciclo di tagli.
Come riportato da eToro, la Fed non ha escluso i tagli, ma li ha sospesi, mantenendo i tassi tra il 4,25% e il 4,5%. È un messaggio chiaro: la politica monetaria è “ben posizionata per attendere”, ma senza alcuna certezza. I prossimi dati, incluso il CPI di maggio, saranno determinanti per capire se uno o due tagli nella seconda metà del 2025 siano ancora sul tavolo.
Il nuovo volto della volatilità: mercato in allerta
Negli ultimi tre mesi, l’S&P 500 ha mostrato un’escalation di volatilità intraday nei giorni di pubblicazione del CPI. A febbraio, il range tra minimo e massimo era dell’1%, a marzo del 1,7%, e ad aprile ha raggiunto un picco del 4,4%, massimo dall’inizio del 2024. Questo aumento della volatilità non riflette solo i numeri, ma soprattutto l’incertezza sulle implicazioni di politica monetaria.
Debach spiega che si tratta di un vero cambio di regime. Il mercato ha perso fiducia in un percorso disinflazionistico lineare. La reazione del 10 aprile, con un’escursione intraday del 4,4% e chiusura a -3,5%, ha dimostrato che oggi gli operatori non si limitano a valutare il dato, ma le sue implicazioni sulla Fed, sul ciclo dei tassi e sull’intera narrativa macro.
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