Le tensioni in Medio Oriente mettono alla prova il dollaro USA come bene rifugio

L’escalation militare tra Israele e Iran riaccende la domanda globale di beni rifugio, ma il dollaro USA appare più fragile del passato. Tra pressioni geopolitiche, segnali macro deboli e attacchi alla Fed da parte di Trump, la leadership valutaria americana è messa alla prova. Ecco perché gli investitori guardano con prudenza al biglietto verde.
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Missili sul nucleare iraniano, riflessi sui mercati e corsa ai beni rifugio
L’escalation delle tensioni tra Israele e Iran ha riportato l’instabilità geopolitica in prima linea nei mercati globali. Come evidenzia Lee Hardman, Senior Currency Analyst di MUFG Bank, la decisione israeliana di colpire siti nucleari e missilistici iraniani ha provocato una reazione immediata su petrolio, valute e asset rifugio. Il Brent è schizzato a 78,50 dollari, segnando un +11%, prima di ritracciare sotto quota 75, annullando le perdite registrate da inizio aprile.
Sul fronte valutario, franco svizzero, yen e dollaro USA hanno beneficiato della tipica corsa verso la sicurezza, mentre le valute ad alto rendimento, come il rand sudafricano, il fiorino ungherese e il peso messicano, hanno invertito la rotta. Ancora più colpite le divise del G10 legate alle materie prime, come australiano e neozelandese, penalizzate dalla crescente incertezza globale.
Le prossime ore saranno cruciali. Il Primo Ministro israeliano Netanyahu ha annunciato che l’operazione "continuerà finché necessario", mentre l’Iran ha già risposto lanciando oltre 100 droni. Il clima da escalation militare, con minacce esplicite di ritorsione, induce molti investitori a ridurre l’esposizione al rischio in vista del weekend. In questo contesto, la tradizionale funzione del dollaro come safe haven sarà messa alla prova proprio mentre la valuta mostra segnali strutturali di debolezza.
Secondo Hardman, questi sviluppi potrebbero fornire un banco di prova tempestivo per l’attrattività tradizionale del dollaro USA come valuta rifugio, in un contesto in cui il biglietto verde aveva appena toccato nuovi minimi annuali.
La posizione ambigua degli Stati Uniti
A complicare ulteriormente il quadro c’è il ruolo degli Stati Uniti, formalmente non coinvolti negli attacchi, ma informati in anticipo da Israele. Il presidente Donald Trump ha ribadito il proprio impegno a impedire che l’Iran ottenga armi nucleari, auspicando un ritorno ai negoziati. Tuttavia, il futuro degli incontri diplomatici previsti in Oman è ora altamente incerto.
Negli ultimi mesi, le relazioni USA-Iran si sono irrigidite. L’Iran ha insistito sul diritto all’arricchimento dell’uranio a fini energetici e, proprio ieri, ha inaugurato un nuovo impianto nucleare. L’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha accusato Teheran di non rispettare gli obblighi internazionali, acuendo il senso di isolamento diplomatico.
In questo scenario, l’ambiguità americana rischia di alimentare ulteriormente la tensione nei mercati. Mentre si riafferma il rischio geopolitico globale, le parole di Trump evidenziano la sua propensione ad agire unilateralmente, aumentando il margine di imprevedibilità nelle scelte strategiche. Questo elemento contribuisce a erodere la fiducia internazionale nel dollaro come valuta di riferimento stabile.
Hardman evidenzia che, sebbene negli ultimi sette anni le relazioni si siano raffreddate, Stati Uniti e Cina, così come Stati Uniti e Iran, restano legati da interdipendenze strategiche, come l’accesso ai semiconduttori o alle terre rare. In tale quadro, l’instabilità rischia di generare effetti sistemici, a prescindere dall’eventuale contenimento militare.
Il dollaro ai minimi da inizio anno
Ben prima degli attacchi in Medio Oriente, il dollaro aveva già imboccato una traiettoria discendente. Nella giornata di ieri, l’indice del biglietto verde ha toccato nuovi minimi annuali, ampliando la perdita da inizio 2025 a quasi il -10%, un calo che non si vedeva da settembre 2022.
Secondo Lee Hardman, alla base del ribasso ci sono sia fattori tecnici, come la rottura di importanti supporti, sia dati macroeconomici deboli. I report su CPI e PPI di maggio hanno confermato una continuità del trend disinflazionistico, con un PCE core stimato in crescita di appena lo 0,1% su base mensile. L’inflazione sotto controllo, in un altro contesto, avrebbe potuto giustificare una ripresa dei tagli ai tassi da parte della Fed, ma le incognite sulla politica commerciale di Trump frenano ogni decisione.
Hardman osserva inoltre che il mercato del lavoro, dal canto suo, invia segnali misti: le richieste continuative di sussidi di disoccupazione sono salite ai massimi da novembre 2021, lasciando intendere che il rischio di deterioramento occupazionale si stia concretizzando. Serve però una conferma nei prossimi mesi per trasformare questi indizi in un vero cambio di narrativa macro.
Trump alza il tiro sulla Fed di Powell
Come riporta Hardman, l’ultimo elemento destabilizzante per il dollaro arriva direttamente dalla Casa Bianca. Di fronte a un’economia che rallenta, Trump ha intensificato gli attacchi alla Fed. Ha chiesto un taglio dei tassi di due punti percentuali, raddoppiando le sue richieste precedenti, sostenendo che ciò potrebbe generare un risparmio annuo di 600 miliardi di dollari per le casse pubbliche.
Pur rassicurando sul fatto che non intende licenziare Jerome Powell, il presidente ha lasciato intendere che potrebbe annunciare a breve il successore, in anticipo rispetto alla scadenza del mandato, prevista per maggio 2026. Secondo indiscrezioni riportate da Bloomberg, il Segretario al Tesoro Scott Bessent sarebbe tra i principali candidati.
Una simile mossa, Secondo MUFG Bank, benché non ancora formalizzata, rischia di minare l’autonomia della banca centrale. Se il futuro presidente designato dovesse iniziare a esprimere pubblicamente le proprie opinioni, si aprirebbe una fase di ambiguità nella credibilità del processo decisionale della Fed, proprio nel momento in cui la chiarezza sarebbe più necessaria per rassicurare i mercati. In questo scenario, la credibilità della politica monetaria americana potrebbe indebolirsi proprio mentre il dollaro cerca stabilità, conclude Hardman.
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