Oro da record, brilla da solo o è il dollaro che si spegne?

L’oro ha vissuto un 2025 da protagonista assoluto, infrangendo record su record e attirando l’attenzione di analisti e investitori. Il suo rally, però, non può essere compreso senza osservare il lento declino del dollaro, al centro di una stagione segnata da geopolitica, politica monetaria, debito e una fiducia internazionale sempre più fragile.
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Il crepuscolo del biglietto verde
Nel 2025 l'oro ha rubato la scena con i suoi bagliori da protagonista indiscusso, toccando 49 nuovi massimi storici e superando quota 4.200 dollari l’oncia. Secondo Gabriel Debach, market analyst di eToro, parte del suo splendore deriva dal crepuscolo del dollaro, mentre la narrativa sulla dedollarizzazione, sul debasement della valuta statunitense e sulle posizioni short sull’USD ha dominato l’umore delle sale trading dopo l’euforia elettorale del novembre 2024. Il clima si è dissolto lentamente e l’indice US Dollar (DXY) mostra un calo dell’8,5% da inizio anno, attorno ai 99 punti, con la sua ottava seduta consecutiva in flessione e il peggior primo semestre dal 1973.
Debach ricorda come nei 30 giorni che portarono alle elezioni 2024 il dollaro abbia seguito un percorso simile al 2016, anno della prima vittoria di Donald Trump. Nei 54 giorni successivi al voto si è apprezzato di circa 5 punti percentuali, quasi rispondendo allo stesso richiamo di nove anni prima. Lo slancio pre-elettorale, alimentato da aspettative di crescita, stimoli fiscali ed eccezionalismo americano, ha riproposto un riflesso che i mercati sembrano riconoscere.
Poi la curva ha cambiato direzione, tracciando un percorso simile a quello del primo mandato Trump, con un apprezzamento post-elettorale seguito da una discesa. L’effetto “liberation day” del 2025, sottolinea Debach, è stato amplificato dalle tariffe commerciali estese a partner globali, un fenomeno che ha innalzato l’incertezza e la volatilità, erodendo fiducia e togliendo al dollaro parte del suo status di rifugio.
Secondo Debach, all’inizio dell’anno il trade “long dollaro” risultava il secondo più affollato nei sondaggi Bank of America tra i gestori, ma la situazione è mutata a giugno quando è emerso un maggiore interesse verso posizioni short. Nel report di novembre questa strategia resta sul podio, al terzo posto, sebbene soltanto con il 6%.
L’analista di eToro osserva che un proseguimento della dinamica attuale potrebbe spingere il DXY verso l’area 95-97 punti, in linea con i minimi del 2018. La prospettiva potrebbe favorire le esportazioni americane ma amplificherebbe le pressioni sui costi delle importazioni, con effetti sull’inflazione interna, un vero incubo per la Fed.
Debach ricorda il precedente del 2017-2018, quando il dollaro scese nonostante i rialzi dei tassi: la ripresa economica globale aveva ridotto il vantaggio relativo dei rendimenti Us, amentre le riforme fiscali di Trump, approvate solo a fine 2017, non fornivano ancora un supporto tangibile. Il clima era peggiorato anche per commenti espliciti dell’amministrazione a favore di un “dollaro debole”, come quelli dell’allora segretario Mnuchin a Davos, che accelerarono il sell-off rompendo con la tradizionale politica del dollaro forte. Anche questo episodio, secondo Debach, trova eco nel contesto odierno.
Le crepe geopolitiche e la nuova mappa delle riserve
Le prime forze della svolta sono geopolitiche. Debach ricorda come il congelamento delle riserve russe nel 2022 avesse già incrinato la fiducia internazionale. Nel 2025 i nuovi dazi hanno amplificato il rischio politico percepito nel detenere dollari. Le riserve globali denominate in USD sono scese al 56,32% nel secondo trimestre, mentre la quota d’oro nelle riserve centrali ha raggiunto massimi storici oltre il 23%, un raddoppio rispetto al 10% registrato nel 2015. La dedollarizzazione, tema spesso giudicato “overhyped”, trova però sostegno in fatti concreti: Cina e Indonesia hanno firmato accordi per svolgere regolamenti commerciali in valute locali, bypassando il dollaro, e il renminbi ha guadagnato spazio nelle riserve. L’analista di eToro nota che questi passaggi, più che segnali di un crollo imminente, definiscono un percorso graduale ma coerente.
La dimensione geopolitica rafforza la trasformazione del mercato valutario, in un contesto in cui il dollaro perde parte del suo antico magnetismo. Cina e altri paesi asiatici si muovono per diversificare rischi e dipendenze, una tendenza che, secondo Debach, influenza non solo portafogli istituzionali ma anche la percezione complessiva di stabilità. La narrativa che vede l’oro brillare da solo si intreccia con un sistema internazionale che ridefinisce priorità e partner finanziari.
Debito, politica fiscale e Fed sotto pressione
Un secondo elemento cruciale della parabola del dollaro riguarda il rapporto tra politica fiscale e politica monetaria. Debach sottolinea che gli Stati Uniti entrano nel nuovo ciclo con un debito pubblico oltre i 38 trilioni di dollari, un peso che accresce la pressione sulla Fed affinché allenti rapidamente le condizioni finanziarie. Si crea un contrasto: da un lato la Casa Bianca ha interesse a tassi più bassi, dall’altro la Fed deve preservare la propria credibilità e l’ancoraggio delle aspettative. Questo braccio di ferro si svolge mentre circolano discussioni sul futuro della leadership della banca centrale, una condizione che non favorisce la stabilità valutaria. L’incertezza sull’indipendenza della Fed finisce per essere incorporata nelle valutazioni del mercato, rendendo il dollaro più vulnerabile.
Debach osserva che la debolezza del mercato del lavoro, la crescita più lenta e la convergenza delle curve forward hanno contribuito all’indebolimento del biglietto verde. Le previsioni vedono la Fed tagliare circa 53 punti base entro il 2030, mentre la Bce è attesa in direzione opposta con un rialzo di 54 punti base. Il divario sui rendimenti, che aveva sostenuto il dollaro nel biennio 2023-2024, si sta assottigliando, riducendo uno dei principali motori del suo rafforzamento.
I ritorno del “debasement trade”
Esiste poi un cambiamento più profondo, come sottolinea Debach, visibile nella correlazione mensile tra DXY e S&P 500. Per decenni, quando Wall Street cedeva terreno, il dollaro avanzava, fungendo da contrappeso nei momenti di stress. Oggi questo meccanismo non funziona: le curve si muovono insieme o non si parlano, e il dollaro non svolge più il ruolo di ombrello nelle fasi di turbolenza. Quando un asset smette di comportarsi come rifugio, il mercato riduce il premio di stabilità che gli attribuisce.
È qui che riemerge il cosiddetto “debasement trade”, una fuga verso oro e asset alternativi per proteggersi dall’erosione della valuta americana, alimentata da deficit cronici e da una politica monetaria percepita come troppo espansiva. L’immagine richiama il ricorso a monete alleggerite da sovrani antichi e trova un parallelo nelle moderne ondate di quantitative easing. Nel 2025 questa narrativa ha fatto breccia nell’opinione pubblica e nel dibattito finanziario, con un’esplosione delle citazioni mediatiche in linea con l’accelerazione del prezzo dell’oro. Secondo Debach, gli argomenti a favore non mancano: il debito globale è in crescita, gli Stati Uniti oscillano attorno al 120% del Pil e la logica della fiscal dominance spinge verso condizioni monetarie più permissive.
Segnali contrari esistono. Debach conclude che il DXY è rimasto stabile da aprile, i rendimenti non mostrano pressioni esplosive e i breakeven dei TIPS restano contenuti. La storia del debasement è potente, ma il mercato obbligazionario non la valida in modo pieno, creando una frattura tra la narrativa dominante e il comportamento effettivo degli attivi finanziari.
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