Oro, il bull market è già finito? Forse solo una correzione naturale

Il forte calo del prezzo dell’oro del 21 ottobre, uno dei dieci peggiori ribassi giornalieri mai registrati, ha riacceso il dibattito sulla fine del ciclo rialzista del metallo prezioso. Per Schroders non si tratta della fine di un trend pluriennale, bensì di una fisiologica correzione all’interno di un mercato rialzista di lungo periodo, sostenuto da fattori fiscali, geopolitici e strutturali ancora intatti.
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Un calo storico, ma non l’inizio di un declino
Il ribasso del 5,5% del prezzo dell’oro registrato il 21 ottobre rientra tra i dieci più consistenti di sempre per il metallo giallo. Anche i titoli azionari legati all’oro hanno accusato un colpo, con una correzione di circa il 9%. Molti analisti hanno subito ipotizzato un parallelo con il 2011, quando l’oro toccò un picco a settembre per poi avviare un lungo declino superiore al 40%.
Tuttavia, James Luke, Fund Manager Metals di Schroders, non ravvisa analogie sostanziali con quella fase. Il contesto attuale è diverso: il rialzo dell’oro dalla fine di agosto, superiore al 30%, pari a circa 1.000 dollari l’oncia, rappresenta sì una corsa eccezionale e momentanea, ma non un picco secolare.
Anche il rally dell’argento, trainato da una temporanea scarsità di offerta a Londra, ha contribuito al boom dei metalli preziosi, salvo poi rientrare con la normalizzazione delle consegne e il ritorno dell’argento sotto i 50 dollari l’oncia. A tutto ciò si è aggiunta l’incertezza macro dovuta alla mancanza di dati economici statunitensi durante lo shutdown iniziato il primo ottobre.
Un bull market ancora in cammino
L’attuale correzione rientra in un bull market pluriennale. Luke descrive il mercato come “l’Everest dei cicli rialzisti dell’oro”, ancora lontano dalla vetta nonostante i progressi già compiuti. La domanda di fondo rimane intatta e anzi continua a crescere, sostenuta da trend secolari fiscali e geopolitici non risolti.
Le tensioni globali, dal nuovo ordine multipolare alle frizioni tra Stati Uniti e Cina, si combinano con l’aumento del debito pubblico e del deficit in molte economie avanzate, alimentando un quadro di dominanza fiscale. Questi elementi, secondo Luke, non rappresentano tanto una minaccia per il dollaro, quanto per lo status quo delle valute legali nel loro complesso.
Parallelamente, i grandi bacini di capitale che investono in oro (banche centrali, fondi globali e famiglie) non hanno ancora esaurito il loro potenziale di domanda. Le banche centrali dei mercati emergenti detengono riserve auree pari solo al 12% del totale, contro oltre il 45% dei Paesi sviluppati (dati World Gold Council e Schroders). Questo divario indica ampie possibilità di accumulo futuro, specialmente in caso di ribassi dei prezzi.
Cina protagonista e domanda globale in crescita
Un focus particolare riguarda la Cina, dove le riserve ufficiali della Banca Popolare si attestano intorno al 7% del totale, ma secondo Luke la domanda non è affatto esaurita per ragioni strategiche di lungo periodo. Anche le famiglie cinesi restano protagoniste: continuano a vedere l’oro come miglior investimento per i prossimi 12 mesi (dati China Reality Research) e detengono oltre 23.000 miliardi di dollari in depositi bancari (dati World Gold Council e Schroders).
La domanda asiatica nel suo complesso rimane forte, anche ai prezzi attuali. In India e Giappone gli acquisti restano sostenuti, a conferma che il metallo conserva appeal come riserva di valore. Nella precedente flessione del 2013, l’interesse per l’oro era esploso con il calo dei prezzi; oggi, al contrario, la richiesta di lingotti di grandi dimensioni si mantiene alta nonostante le quotazioni ai massimi.
Gli ETF occidentali restano invece al di sotto dei picchi del 2020 in termini di once detenute, anche se il valore nominale delle partecipazioni è salito sensibilmente. Tutti segnali che confermano un mercato ancora lontano dall’esaurimento del ciclo rialzista.
Margini record per le società aurifere
Il recente calo dell’oro non sembra destinato a compromettere la redditività delle società minerarie aurifere, che restano sostenute da margini record di flusso di cassa. Secondo Schroders, i margini attuali sono di circa 2.000 dollari l’oncia su base all-in sustaining cost, ben oltre il picco di 1.000 dollari del 2020, nonostante i titoli auriferi trattino ancora a sconto rispetto al prezzo del metallo.
Nel terzo trimestre, l’oro ha avuto un prezzo medio di 3.430 dollari l’oncia, in crescita rispetto ai 3.250 dollari del secondo trimestre, aprendo la strada a un nuovo ciclo di risultati record. Per il quarto trimestre, Schroders prevede un moderato calo medio verso 3.200 dollari l’oncia, ma ritiene improbabile un ribasso duraturo superiore al 20%.
Le stime di consenso indicano prezzi del 2026 inferiori di 300 dollari rispetto agli spot e di 1.000 dollari nel 2027, segno che il margine per revisioni al rialzo resta ampio. Molti produttori concentrano la maggior parte della produzione nella seconda metà del 2025, con attese di flussi di cassa record e programmi di distribuzione potenziati.
Nel complesso, Schroders ritiene che questa fase di consolidamento non alteri il quadro rialzista. Se il mercato dovesse rimanere stabile e le tensioni globali persistessero, ulteriori scossoni potrebbero aprire nuove e interessanti opportunità di ingresso nel metallo e nei titoli collegati.
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