Shale Oil, gli Usa si preparano a un’ondata di fallimenti

Il settore si aggiunge al lungo elenco di “vittime” della Covid-19. Il duro colpo dovuto alle misure di blocco per arginare la pandemia si è sommato a una serie di eventi negativi per il mercato. Gli analisti prevedono che 250 aziende possano dichiarare il default prima della fine del prossimo anno
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L’attesa di un’ondata di fallimenti entro il 2022
Una perdita record di 26 miliardi nel primo trimestre 2020 e l’attesa di un’ondata di fallimenti entro il 2022.
Il settore dello shale oil si aggiunge al lungo elenco di “vittime” della pandemia Covid-19.
Secondo quanto riportato dalla società di ricerca indipendente Rystad Energy, il crollo della domanda, infatti, avrebbe innescato oltre 38 miliardi di dollari di svalutazioni, con perdite nette ben maggiori della media di 2,9 miliardi di dollari negli ultimi sei anni.
Il settore del fossil fuel scontava già una serie di difficoltà causate dalle iniziative di carattere normativo sulle emissioni di carbonio e dall’aumento della competitività (anche a livello dei prezzi) delle energie rinnovabili.
Il duro colpo dovuto alle misure di blocco per arginare la Covid-19 si è sommato a una riduzione della domanda (sullo sfondo di una guerra dei prezzi tra Arabia Saudita e Russia) con un declino senza precedente dei prezzi.
Ad aprile, per la prima volta nella storia, i futures sono stati scambiati in territorio negativo. Tanto che secondo un’analisi di State Street Global Advisor e della Carbon Tracker Initiative, «la domanda di combustibili fossili potrebbe non superare mai più i picchi del 2019».
Attesi 250 fallimenti entro il 2021
Gli analisti, riporta il Financial Times, prevedono che 250 aziende potrebbero fallire prima della fine del prossimo anno, a meno che i prezzi del petrolio non aumentino abbastanza velocemente da iniziare a generare ricchezza per i produttori.
Un esempio in questo senso è fornito dal recente rally che ha riportato il prezzo del Wti al di sopra dei 30 dollari al barile, dopo aver scambiato in territorio negativo il mese scorso.
Nonostante l’ultimo rally, le quotazioni sono la metà rispetto al prezzo con cui lo shale oil era scambiato a gennaio. Secondo le informazioni diffuse dalla corporate law firm Haynes & Boone, sono già 17 i piccoli produttori che hanno fatto ricorso al “Chapter 11”, ossia la procedura di ristrutturazione del debito del codice fallimentare Usa.
Gli analisti di Rystad stimano che il totale potrebbe salire a 73 prima della fine dell'anno. Altri 170 seguiranno l'anno prossimo se i prezzi si attesteranno sui livelli attuali.
Il boom dello shale
Dal 2008 a oggi, il boom dello shale oil ha raddoppiato la produzione di petrolio americano, e le esportazioni di greggio sono aumentate tanto da consentire al presidente Donald Trump di vantarsi della «indipendenza energetica» degli Stati Uniti.
In realtà si è trattato di un modello che spostava il rischio sul futuro, e con cui produttori si sono affidati fortemente al denaro preso in prestito, pur offrendo magri rendimenti.
L'industria stava già lottando per generare liquidità e mantenere il sostegno degli investitori nel 2019, quando il WTI ha raggiunto una media di 57 dollari al barile.
Ora, con il WTI in calo di circa la metà di quest'anno e lo scarso accesso ai finanziamenti, la pandemia e il crollo del prezzo del petrolio sono destinati ad accelerare i default.
Almeno, queste sono le previsioni anche di Fitch. «Ci sono un paio di nomi piuttosto grandi che probabilmente andranno presto in bancarotta» ha detto John Kempf, senior director dell’agenzia di rating.
I timori sulle obbligazioni high yield
La quantità di obbligazioni high yeld nel settore energetico è passata da 68 miliardi a 108 miliardi di dollari quest'anno, mentre una manciata di grandi nomi tra cui Cenovus Energy, Occidental Petroleum e Apache sono diventati "fallen angel", scivolando da investment grade a junk, secondo Fitch.
Le società del settore energetico costituiscono addirittura il 58% della lista dei più preoccupanti emittenti statunitensi nel mercato high yield secondo l’agenzia, che prevede un tasso di default del 17% per i titoli energetici ad alto rendimento entro la fine dell'anno (più o meno lo stesso livello raggiunto nel momento più buio dell’ultima recessione, nel 2016).
Le difficoltà del settore hanno portato a chiedere un intervento politico da Washington, e alla richiesta di maggiori pressioni sulle tariffe del greggio importato.
Nonostante l'aumento dei prezzi nelle ultime settimane, che ha attenuato la richiesta di sostegno governativo da parte dei produttori, e salutato da Trump con un tweet, "Il petrolio (energia) è tornato", il ritmo dei fallimenti non frenerà la sua corsa.
Ken Coleman, head of US restructuring presso lo studio legale Allen & Overy, ha detto che le pratiche sono solo all'inizio, con una «ondata» di fallimenti in arrivo già in estate. «L’unica domanda sarà non se, ma quanto durerà».
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