Usa, la crescita dei prezzi si è infiltrata in gran parte dell’economia


I dati di inflazione USA sono stati peggiori delle stime, portando i mercati a stimare un aumento di 75 bp nel prossimo meeting con il 99% di probabilità.


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Vendite al dettaglio USA MoM di settembre in uscita alle 14:30 (stima 0,2% contro 0,3% di agosto) e fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan di ottobre alle 16:00 (stima 59 punti contro 58,6 di settembre).

Inflazione USA di settembre leggermente più alta delle stime (8,2% contro 8,1%), ma pur sempre in lenta discesa rispetto ad agosto (8,3%). L’inflazione core invece non solo è più alta delle stime (6,6% contro 6,5%) e rispetto ad agosto, ma anche degli ultimi 40 anni. Segnale evidente che la crescita dei prezzi si è ormai infiltrata in gran parte dell’economia. E questo ovviamente è proprio quello che vorrebbe evitare la FED.

A questo si aggiunge un aumento dell'indice energetico del 19,8% (23,8% in agosto), con il paniere dei prodotti alimentari che a settembre è cresciuto dell'11,2% YoY. Anche lo shelter index (l'indice degli alloggi) è risultato in crescita (+6,6% YoY), arrivando a pesare per il 40% dell'aumento totale dell'indice di tutti i beni al netto di cibo ed energia.

I mercati si aspettano ora un aumento di 75 bp nel prossimo meeting con il 99% di probabilità.

L'inflazione sta costringendo le banche centrali ad aumentare i tassi di interesse alimentando le preoccupazioni per la recessione e gli utili aziendali e spingendo i mercati al ribasso. Quanto più a lungo l'inflazione rimane elevata, tanto maggiore sarà il rischio per l'economia. Secondo i mercati finanziari, l'inflazione non solo dovrebbe scendere, ma farlo anche rapidamente perché la FED attenui la stretta monetaria. Gli attuali livelli dei prezzi sono infatti circa quattro volte superiori all’obiettivo del 2%.

Ovviamente questo dipende dalla profondità della recessione. È infatti ancora tutto da capire se questa sarà "ciclica", quindi relativamente breve e causata per lo più dalla FED, oppure se sarà "sistemica", più profonda, lunga e quindi più dannosa e ulteriormente aggravata dal deleveraging dei consumatori e delle imprese nonché dalle prevedibili crisi del debito.

Domanda di non facile risposta. Secondo Goldman Sachs la Fed continuerà ad aumentare i tassi a livelli più alti di quelli in precedenza ipotizzabili, impattando anche sulle valutazioni azionarie. Nel suo scenario centrale, rispetto a un rapporto P/E di 18x per l’S&P 500 di qualche metà settembre, ora GS ipotizza un rapporto pari a 15x il che implica un prezzo target per l’indice a fine anno di 3.600 punti (-5%) con una previsione a 12 mesi di 4.000 punti (+6%). Se invece il calo degli utili societari si dovesse accompagnare a una recessione, e dunque quello della FED sarebbe un atterraggio non certo morbido, le prospettive per l’S&P 500 sarebbero molto meno rosee con previsioni a 6 e 12 mesi rispettivamente del -17%, - 1% circa.

Al di la delle stime di Goldman Sachs, due sembrano le certezze (e non è poco in questo momento): i ribassi stanno durando più del dovuto e prima o poi gli indici torneranno a salire; mediamente il mercato orso USA dal 1929 è durato circa 19 mesi con un calo medio dei prezzi del 38% circa. E’ vero che il dato è peggiore di quello che abbiamo visto finora, ma è altrettanto vero che il mercato toro medio seguente dura 60 mesi e registra un rally del 180%. Si tratta di un periodo quasi quattro volte più lungo e più grande di un mercato orso medio.

A voi la conclusione.

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