Nuova fiammata del petrolio: cosa sta succedendo?

Un terremoto nel Mare del Nord e l’attacco ad un impianto in Arabia Saudita stanno mettendo nuova pressione sui prezzi del petrolio, mentre restano le incertezze sull’offerta russa a causa del conflitto in Ucraina.
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Petrolio di nuovo in crescita
Come se non bastasse la guerra in Ucraina, una serie di notizie provenienti da tutto il mondo mette ulteriore pressione sui prezzi del petrolio.
Dopo il calo del 4% complessivo arrivato la scorsa settimana per i prezzi del petrolio, oggi il greggio WTI torna a crescere (+4%) e supera i 107 dollari, mentre il Brent è scambiato oltre i 111 dollari al barile.
A Piazza Affari, il nuovo balzo mette le ali a Tenaris (+4,8%), la migliore del Ftse Mib dopo oltre due ore di scambi, seguita da Eni (+2%) e Saras (+1%), mentre resta indietro (-0,3%) Saipem, con gli analisti che predicano cautela prima del piano industriale atteso a fine settimana e del relativo aumento di capitale.
Terremoto nel Mare del Nord
L’ultima notizia in ordine di tempo a incidere sui prezzi del greggio riguarda la chiusura della piattaforma petrolifera Snorre B, di proprietà del colosso norvegese Equinor, a causa di un terremoto nel Mare del Nord.
La piattaforma produce tra i 30 mila e i 35 mila barili di petrolio al giorno e il portavoce di Equir, Gisle Ledel Johannessen ha riferito che per ora non è ancora chiaro quando potrà riprendere la produzione.
“La nostra priorità ora è la sicurezza”, spiegava il portavoce, aggiungendo che l’interruzione rappresenta soltanto una “misura di precauzione”.
“Snorre è la piattaforma più vicina alla zona del sisma e presso gli impianti si è avvertito il terremoto”, spiegava Johannessen, “ma non ci sono segnalazioni di danni alle strutture o sul fondale marino”.
Equinor detiene una partecipazione del 33,3% in Snorre, mentre il 30% è di proprietà della compagnia petrolifera statale Petoro, Vaar Energi possiede il 18,5%, INPEX Idemitsu il 9,6% e Windershall DEA l'8,6%, secondo i dati del governo norvegese.
Aramco sotto attacco
In queste ore, dall’Arabia Saudita hanno annunciato una “riduzione temporanea” della produzione di petrolio in uno degli impianti di proprietà del colosso Saudi Aramco, società che ieri aveva annunciato i suoi conti relativi al 2021.
L’impianto sarebbe quello di desalinizzazione presente a Al-Shaqeeq, preso di mira da 4 droni, intercettati e distrutti a sud vicino al confine con lo Yemen.
Dell’attacco sono stati accusati i ribelli Houthi all’interno di una loro offensiva più ampia diretta verso diversi obiettivi in Arabia Saudita, in quanto guida di una coalizione militare in Yemen che ha sostenuto il governo contro il gruppo armato.
Per il momento, l’interruzione verrà “compensata dalle score”, assicurava il ministro dell’energia in un comunicato, senza specificarne l’entità.
Il rapporto dell’EIA
L'Agenzia internazionale per l'energia (IEA) calcolava che i mercati potrebbero perdere tre milioni di barili al giorno (bpd) di greggio russo e prodotti raffinati da aprile in una prospettiva di calo 'verticale' della produzione di greggio dalla Russia a causa del conflitto attualmente in corso.
Si tratta di una perdita di fornitura ben superiore del calo previsto di un milione di bpd al giorno dovuto all'aumento dei prezzi del carburante.
Inoltre, l’agenzia ha indicato che più della metà dell’output è diretto all’Europa e circa il 20% alla Cina, pertanto i cambiamenti nell’offerta incidono su molti paesi.
Anche se per ora è “ancora troppo presto per valutare gli effetti” del nuovo scenario, l’agenzia ha sottolineato come l'invasione dell'Ucraina potrebbe portare a “cambiamenti duraturi sui mercati energetici”.
Report dell’Opec
Nel frattempo, dall’Opec+ hanno ammesso che alcuni membri stanno faticando nel rispettare le proprie quote di produzione, portando l’output di greggio dello scorso mese in ritardo di oltre 1 milione di barili al giorno nell'ambito dell’aumento della produzione pari a 400 mila barili al giorno.
L’Opec era stata sotto pressione nei giorni scorsi a causa della richiesta di aumento di produzione proveniente dai paesi occidentali, in testa gli Stati Uniti.
I due paesi in grado di aumentare immediatamente la produzione, ovvero l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, si sono rifiutati di ‘obbedire’ alle richieste del governo di Joe Biden, attirando nuova pressione sui prezzi dell’oro nero.
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