Trump può davvero prendere il controllo sulla Fed? Ecco come reagirebbero i mercati

Il dibattito sul futuro della Fed è tornato centrale mentre si intensifica l’ipotesi che Donald Trump possa provare ad ampliare la sua influenza sulla banca centrale nel suo secondo mandato. Il tema crea forti reazioni sui mercati, perché un eventuale indebolimento dell’indipendenza della Fed avrebbe effetti immediati su inflazione, tassi e credibilità finanziaria degli Stati Uniti.
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Pressioni politiche e obiettivi strategici
La discussione sull’indipendenza della Federal Reserve (Fed) è tornata accesa dopo le pressioni esercitate da Donald Trump per ottenere una svolta accomodante nella politica monetaria. Come si legge nell’analisi di Ombretta Signori, Head of Macroeconomic Research di Ofi Invest AM, il presidente statunitense ha già più volte chiesto un deciso taglio dei tassi e mostrato la volontà di rimuovere figure chiave del board, compreso Jerome Powell, per sostituirle con profili allineati alla sua visione.
Le ragioni sono molteplici per Signori. La possibilità di influenzare la Fed garantirebbe un vantaggio immediato sul fronte del debito pubblico, perché tassi più bassi ridurrebbero il costo del servizio del debito e offrirebbero ossigeno all’economia americana. Allo stesso tempo, una banca centrale più accomodante consentirebbe una deregolamentazione più ampia della finanza, dato che la Fed mantiene poteri significativi di supervisione sulle banche grazie al framework introdotto dopo la Grande Crisi Finanziaria. Anche la politica valutaria rientra nel disegno complessivo: un abbassamento dei tassi indebolirebbe il dollaro e attenuerebbe la volatilità generata da dazi e tensioni commerciali.
Parallelamente, spiega Signori, la comunità accademica e gran parte degli operatori rimarcano perché l’indipendenza della banca centrale sia cruciale per la stabilità di lungo periodo. La relazione tra controllo politico e inflazione è stata dimostrata in moltissimi studi, con il caso turco come esempio estremo, dove la perdita di autonomia istituzionale ha contribuito a un’inflazione arrivata all’80% nel 2022. Il rischio percepito sui mercati, in tale scenario, è un rapido peggioramento delle aspettative e un deterioramento della fiducia nel sistema.
La struttura della Fed e gli spazi di manovra per la Casa Bianca
Il tema centrale, però, riguarda la reale possibilità dell’amministrazione di orientare la politica monetaria attraverso nuove nomine. Come ricorda Signori, il board della Fed è composto da sette governatori con mandati di 14 anni, scelti dal presidente degli Stati Uniti e approvati dal Senato. Il presidente della Fed, incarico quadriennale rinnovabile, viene selezionato tra questi sette membri. Una volta nominati, governatori e chair possono essere rimossi solo per giusta causa, condizione che limita fortemente l’ingerenza politica diretta.
Nel quadro attuale, il 2026 rappresenta un passaggio critico. Il mandato di Stephan Miran scadrà l’anno prossimo e quello di Jerome Powell come chair giungerà al termine, mentre la sua permanenza come governatore ha scadenza nel 2028, ma è plausibile che decida di lasciare il board. Ciò aprirebbe almeno una e potenzialmente due posizioni libere, consentendo all’amministrazione di inserire figure favorevoli a una politica più espansiva.
Il quadro potrebbe ampliarsi ulteriormente con la posizione di Lisa Cook, che potrebbe valutare un’uscita anticipata dopo il controverso tentativo di rimozione. Sommando le variabili, spiega Signori, non è impossibile che Trump arrivi a nominare fino a tre governatori nel nuovo ciclo, aumentando l’influenza politica sia nel board sia all’interno del FOMC, che decide la politica monetaria insieme al presidente della Fed di New York e a quattro presidenti delle banche regionali, scelti a rotazione.
Non è ancora definibile quante poltrone saranno effettivamente disponibili nel 2026, ma è certo che i margini di intervento della Casa Bianca siano superiori rispetto al passato recente, soprattutto dopo le tensioni con Powell già emerse nel precedente mandato trumpiano.
Impatto sui mercati e sulle prospettive macro
Se l’influenza politica sulla Fed dovesse rafforzarsi, le implicazioni sui mercati sarebbero immediatamente percepibili. Le analisi di Ofi Invest AM mostrano che una banca centrale politicizzata tende a generare un’inflazione più alta, con conseguenti pressioni su prezzi, salari nominali e curve dei rendimenti. La domanda di risk premium da parte degli investitori aumenterebbe in modo significativo, riducendo gli investimenti privati e incidendo negativamente sul rating sovrano.
La possibilità di un dollaro più debole potrebbe offrire un beneficio di breve periodo allo Stato, grazie a minori oneri sugli interessi del debito, ma tale effetto si esaurirebbe rapidamente. Nel medio e lungo termine, sottolinea Signori, la combinazione di inflazione più alta, rischio percepito crescente e minore credibilità istituzionale peserebbe sulla crescita potenziale degli Stati Uniti e sulla capacità di attrarre capitali esteri.
Le ripercussioni non sarebbero limitate al perimetro nazionale. Gli Stati Uniti rappresentano il benchmark globale per titoli di Stato, tassi e valute. Qualsiasi modifica percepita come un indebolimento dell’indipendenza della Fed, conclude Signori, influenzerebbe le dinamiche dei flussi globali, aumentando la volatilità nei mercati emergenti, rafforzando la domanda di beni rifugio e alterando gli equilibri di funding nel sistema finanziario mondiale.
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